
Coronavirus e inquinamento: esiste davvero un legame?
Il blocco quasi totale e l’isolamento imposto dai governi a causa dell’epidemia di coronavirus ha ridotto sensibilmente lo smog che avvolgeva le grandi aree metropolitane. Dal 9 marzo in poi i livelli di biossido d’azoto (NO2) a Milano e in altre zone dell’Italia settentrionale sono diminuiti di circa il 40%. Si tratta di uno degli inquinanti più dannosi, che causa da solo la morte di 14.600 persone all’anno in Italia sulle 76.200 totali per inquinamento e polveri sottili (dati Agenzia europea per l’ambiente).
Questa riduzione, confermata dal servizio di monitoraggio dell’atmosfera di Copernicus (programma di osservazione della Terra della UE), è la sola notizia lieta legata all’epidemia di Covid-19.
Covid-19 e polveri sottili
Nelle ultime settimane si è diffusa la convinzione di una correlazione diretta tra inquinamento atmosferico e contagio da coronavirus.
Si è ipotizzato che una alta concentrazione di particolato (PM10, PM2.5) aumenti il rischio di infezione e di complicanze della malattia.
È noto, d’altronde, che l’inquinamento atmosferico da PM 2.5, sia uno dei fattori di rischio più importanti per la salute, dopo la dieta, il fumo, l’ipertensione e il diabete: sono 2.9 milioni all’anno i morti in tutto il mondo. L’inquinamento atmosferico, infatti, aumenta il rischio di cardiopatia ischemica, ictus e malattia polmonare ostruttiva cronica, tra le altre.
Si è anche ipotizzato che il particolato atmosferico possa fungere da veicolo (carrier) per la diffusione del virus nell’aria, ma ciò non risulta possibile dal punto di vista biologico. Il PM, infatti, ha la capacità di trasportare particelle biologiche (batteri, virus, pollini, spore, funghi, alghe), ma è improbabile che i coronavirus possano rimanere attivi all’aperto per un tempo prolungato. Questo perché temperatura, essiccamento e UV compromettono l’involucro del virus pregiudicando così la sua capacità infettiva.
A tal proposito è bene fare chiarezza e considerare attentamente gli studi che sono stati effettuati finora.
Cosa dicono gli studi scientifici
Ad oggi sono stati imbastiti due studi.
In Italia, il Position Paper della Società Italiana di Medicina Ambientale ha suggerito che il contributo dell’inquinamento al contagio è plausibile sia come veicolo (carrier) sia come amplificatore (boost) degli effetti sui polmoni del virus.
Lo studio ha osservato le province italiane mettendo confronto la proporzione di superamenti del PM10 nelle centraline di ciascuna provincia con il numero di casi da Covid-19 nei 14 giorni successivi.
La relazione è risultata evidente, ma l’analisi non considerava in dettaglio i dati di inquinamento ma solo i superamenti dei limiti consentiti e tralasciava altri fattori.
Questi difetti sotto punto di vista metodologico hanno spinto le autorità ad auspicare ulteriori studi con evidenze scientifiche più solide.
Un altro studio, diffuso dai ricercatori di Harvard (Xiao Wu, 2020), ha messo sotto indagine la relazione tra esposizione prolungata a PM2.5 e il rischio di morte per Covid-19 negli Stati Uniti.
Il risultato è stato un aumento del 15% della mortalità, con riferimento a tutta la popolazione, associato ad un incremento di 1 ug/m3 di PM2.5.
Secondo lo studio il virus si sarebbe diffuso con maggiore rapidità nelle zone con popolazione più esposta all’inquinamento, e quindi più fragile.
Tuttavia, anche questo lavoro è parzialmente invalidato da gravi problemi metodologici.
Lasciamo la scienza agli scienziati
In conclusione, possiamo affermare che le prove scientifiche non sono ancora sufficienti a dimostrare una relazione diretta tra contagio e inquinamento.
L’inquinamento è responsabile di una strage quotidiana che fa impallidire qualunque epidemia, ma al momento attuale non è possibile attribuire ad esso anche la diffusione del Covid-19.
Le decine di articoli pubblicati in rete e condivisi sui social network, perciò, non riportano informazioni esatte. Con questo articolo, speriamo di aver fatto un po’ di chiarezza sull’argomento.
In questo periodo di incertezza e preoccupazione per il futuro, pensiamo che sia fondamentale informare nella maniera giusta e non diffondere notizie incerte. Lo dobbiamo a tutti coloro che stanno soffrendo a causa dell’epidemia e ai tanti professionisti che stanno lavorando per riportarci alla normalità.
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Covid-19: crollano i consumi di energia elettrica
La diffusione del coronavirus ha reso necessarie misure di contrasto senza precedenti. Chiudere tutte le attività non essenziali è stata una decisione dura ma indispensabile per tutelare la salute di tutti i cittadini.
A meno di un mese dal lockdown i primi pesanti effetti sull’economia si stanno manifestando.
Cala il fabbisogno nazionale di energia elettrica
Il settore energetico per primo sta subendo questi effetti con un consistente calo della domanda elettrica.
In Italia, nel periodo tra mercoledì 11 marzo e venerdì 3 aprile, la domanda elettrica si è attestata intorno ai 17,2 TWh contro i 20,7 TWh dello stesso periodo del 2019 (dati Terna).
Questo significa che, in poco più di tre settimane, il fabbisogno elettrico nazionale è diminuito del 17% rispetto allo stesso periodo del 2019: ben 3,5 TWh consumati in meno.
Se ci concentriamo sull’ultima settimana, però, quella dal 28 marzo al 3 aprile, il calo in percentuale è stato persino superiore, arrivando al 21,4% sullo stesso periodo del 2019: il paese ha richiesto quasi 1,3 TWh in meno.
Bisogna rilevare che gran parte di questo calo della domanda nazionale, circa il 75%, si colloca nel Nord Italia.
Nell’area Nord, ovvero Val d’Aosta, Piemonte, Liguria, Lombardia, Trentino Alto-Adige, Veneto, Friuli ed Emilia-Romagna, infatti, si concentra mediamente poco più del 50% dei consumi elettrici del Paese.
Per questa ragione, nella settimana dal 28 marzo al 3 aprile nell’area Nord si ha avuto un consumo inferiore del 27,8% rispetto allo stesso periodo del 2019.
Colpite anche le energie rinnovabili
Riguardo alla generazione termoelettrica nel periodo indicato, la produzione da fonti fossili e centralizzata risulta diminuita del 30,6% sullo stesso periodo 2019 (-23,7% includendo l’autoconsumo), con una diminuzione totale di circa 3 TWh.
Allo stesso tempo, anche la generazione da fonti rinnovabili elettriche ha subito una flessione consistente: -5% sul 2019, ovvero circa 346 GWh in meno.
Il decremento più significativo è quello dell’eolico che cala del 38,7% (- 684 GWh), seguito dal fotovoltaico con il 6,6% (-125 GWh) e dalla biomassa con l’1,3% in meno.
Sono in controtendenza, invece, la produzione da idroelettrico che sale del 28% rispetto al 2019 (+467 GWh) e la geotermia (+2,9%).
Verso la stabilizzazione dei consumi
La settimana dal 28 marzo al 3 aprile ha visto un decremento dei consumi elettrici rispetto alla precedente dell’1,8%, una diminuzione molto contenuta se confrontata a quella dell’inizio del lockdown.
Questo dato fa presumere che i consumi non siano destinati a scendere ancora molto da qui in avanti e ciò appare tranquillizzante, in attesa che l’emergenza sia superata e il Paese si rimetta in moto.
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