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Greenwashing, quando la sostenibilità è una truffa

Mai sentito parlare di greenwashing? Stiamo parlando del cosiddetto “ambientalismo di facciata”, ovvero quando le aziende proclamano il loro impegno per la sostenibilità ma, in realtà, fanno ben poco di concreto.

In un periodo storico in cui cresce l’importanza della sostenibilità ambientale agli occhi dei consumatori, il greenwashing è una forza distruttiva che minaccia di rallentare la transizione ecologica.

In questo articolo citeremo alcuni esempi clamorosi di questa odiosa pratica, per poi darvi qualche dritta su come riconoscerli e difendervi.

Casi di greenwashing in grandi aziende

Uno dei casi più famosi e dibattuti è quello dell’azienda chimica DuPont.

Nel 1989 è uscito uno spot in cui si vedevano animali marini battere le pinne (o le ali) sulle note dell’Inno alla Gioia di Beethoven. Da questo spot, prodotto dalla più grande inquinatrice degli Stati Uniti, è partita una lunghissima battaglia legale.

Tra il 1951 e il 2003 la DuPont aveva riversato quasi 7100 tonnellate di PFOA-C8 nei torrenti vicini al suo stabilimento di Washington Works, contaminando il fiume Ohio.

Nel 2005 arrivò la prima multa da parte dell’EPA di 16,5 milioni di dollari, una cifra insignificante se messa a confronto con il fatturato dell’azienda.

Solo grazie a una class action collettiva a cui parteciparono le 100mila persone entrate in contatto con l’acqua contaminata da PFOA, la DuPont dovette infine pagare una multa di 671 milioni di dollari.

Citiamo ora qualche caso italiano, a partire da quello dell’Eni che ha recentemente pagato una multa da cinque milioni di euro per greenwashing.

Lo spot ENI Diesel+, mandato in onda tra il 2016 e il 2019, è stato il primo caso di greenwashing in Italia.

I messaggi lasciavano intendere che il combustibile fosse sostenibile, bio e rinnovabile, caratteristiche usate da Eni per giustificare anche l’aumento del 10% sul prezzo.

Anche le celebri aziende dell’acqua minerale, Ferrarelle, San Benedetto e Sant’Anna hanno ceduto al greenwashing.

Ferrarelle in un spot aveva pubblicizzato la sua bottiglia “impatto zero” promettendo di compensare la CO2 emessa con la tutela di nuove foreste.

Naturalmente, era stato scorretto affermare che una bottiglia di plastica non avesse un impatto sull’ambiente e Ferrarelle era stata sanzionata dall’Antitrust con una multa di 30 mila euro.

Anche San Benedetto e Sant’Anna sono state sanzionate per simili affermazioni esagerate sulla sostenibilità delle loro bottiglie.

Imparare a difendersi

Imparare a riconoscere lambientalismo di facciata non è immediato, ma esistono strumenti utili per acquisire maggiore consapevolezza sui prodotti.

Parliamo dei numerosi strumenti di marcatura ed etichettatura che garantiscono l’appartenenza delle aziende ai regimi di tutela ambientale e a risparmio energetico. Ad esempio, esistono:

  • le certificazioni secondo gli standard EMAS (strumento a base volontaria al quale possono aderire aziende, enti pubblici e siti per valutare e fornire al pubblico informazioni sulla loro sostenibilità ambientale)
  • le certificazioni ISO 140001
  • le etichette ambientali, utili per orientare gli acquisti verso prodotti a basso impatto ambientale. Alcune di queste sono imposte per legge (ad esempio, l’etichetta energetica che devono riportare gli elettrodomestici o i contrassegni per i prodotti tossici). Altre possono essere ottenute dall’azienda (ad esempio, ISO 14024, ISO 14021, ISO 14025, Dichiarazioni Ambientali di Prodotto e Ecolabel).

Come regola generale, però, per evitare di venire ingannati dai messaggi delle aziende, è sempre bene diffidare di affermazioni esagerate e generiche.

Insomma, anche in casi come il greenwashing, o ambientalismo di facciata che dirsi voglia, il buon senso è sicuramente il nostro miglior alleato.

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