
Canapa: una potente arma nella bonifica dei terreni inquinati
La canapa, ancora oggi criminalizzata, è una pianta dalle mille risorse.
Le sue fibre, ad esempio, sono utilizzate per produrre tessuti con un impatto ambientale decisamente inferiore a quello del cotone, perché richiede un impiego limitato di pesticidi e di fertilizzanti.
La canapa è anche un’ottima materia prima per ottenere carta, olio dalle proprietà antiossidanti, analgesiche e antiinfiammatorie e semi edibili ricchi di proteine e amminoacidi.
Inoltre, la varietà Sativa presenta una concentrazione di THC (la molecola psicoattiva dal potere “drogante”) che non supera lo 0,2%, rispetto alla varietà Indica. Questa fondamentale distinzione è d’obbligo per fugare ogni dubbio: non tutta la canapa è droga (anche se entrambe le varietà vantano proprietà utilissime).
La proprietà fitorimediante della canapa
Tra le tante caratteristiche interessanti, in questo articolo vogliamo concentrarci su quella più importante dal punto di vista ambientale.
Stiamo parlando della proprietà fitorimediante.
La fitorimediazione (o fitorisanamento), una tecnologia naturale di bonifica dei suoli che utilizza piante in grado di estrarre metalli pesanti o permettere la degradazione di composti organici in terreni contaminati.
La pianta di canapa, infatti, ha la capacità di assorbire gli inquinanti dal suolo e rendere i terreni nuovamente fertili.
Una proprietà che la rende adatta a progetti di bonifica di terreni contenenti metalli quali piombo, cromo, nichel, arsenico e altri.
La fitorimediazione è un metodo a basso costo e sostenibile, per porre rimedio all’inquinamento industriale e urbano. Pensiamo anche a quei terreni in cui sono stati stoccati illegalmente rifiuti tossici o quelli che sono stati luogo di roghi di immondizia di vario genere.
Inoltre, al contrario di trattamenti chimico-fisici molto invasivi e aggressivi per gli ecosistemi, la fitorimediazione ripristina la fertilità e la biodiversità del terreno senza stravolgere il terreno.
Dopo la bonifica
Una volta che la pianta di canapa ha completato il suo ciclo di vita, deve essere utilizzata o smaltita tenendo conto della sua alta concentrazione di inquinanti.
A tal proposito, sono stati ipotizzati e sperimentati diversi metodi per utilizzare la canapa dopo il processo di fitorimediazione. Gli utilizzi alimentari e nell’industria tessile sono, naturalmente, da escludere a causa dei metalli pesanti assorbiti.
Tuttavia, alcune soluzioni praticabili e convenienti potrebbero essere:
- usare i semi nella produzione di biodiesel. Essi, infatti, sono costituiti da un’importante percentuale di olio: circa il 36%.
- impiegare le fibre e il canapulo per ottenere materiali compositi.
- produrre energia da biomassa nelle centrali termoelettriche, e successivamente recuperare i metalli dalle ceneri attraverso un processo chiamato phytomining.
Oltre il pregiudizio
Le attività umane, portate avanti senza criterio e integrità morale, hanno avvelenato tantissimi terreni e messo in pericolo la salute delle persone.
La canapa ci viene in soccorso e ci permette di rimediare.
Forse sarebbe il caso di smettere di vederela come una “droga pericolosa” e concentrarsi sulle sue interessanti caratteristiche: l’effetto psicotropo è davvero l’ultima da prendere in considerazione.
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Legame fra inquinamento e COVID-19: parte il progetto PULVIRUS
Diversi recenti studi scientifici (ne abbiamo citati alcuni in un recente articolo) hanno messo in relazione la diffusione del Covid-19 con la concentrazione di inquinanti nell’aria.
Questa ipotesi è partita dalla semplice osservazione delle zone più colpite dall’epidemia, che coincidono con quelle maggiormente inquinate, nonché maggiormente popolate.
Gli studi realizzati fino ad oggi, tuttavia, non sono stati del tutto rigorosi e convincenti. Di conseguenza, urge che sia fatta chiarezza sulla questione in modo ufficiale.
A questo scopo, la nuova alleanza scientifica fra ENEA, Istituto Superiore di Sanità (ISS) e Sistema Nazionale per la Protezione Ambientale ha annunciato l’avvio di un importante progetto di ricerca.
Si chiama progetto PULVIRUS e avrà l’obbiettivo di fornire informazioni e risposte sulla relazione di inquinamento atmosferico e COVID-19, su basi strettamente scientifiche.
Gli obbiettivi del progetto
C’è un legame concreto fra inquinamento atmosferico e diffusione della pandemia?
In che modo avvengono le interazioni fisiche, chimiche e biologiche tra i virus e le polveri sottili?
Quali effetti, e di quale portata, ha avuto la quarantena sull’inquinamento dell’aria e sui gas serra (soprattutto CO2 e N2O)?
Sono questi gli interrogativi a cui PULVIRUS tenterà di dare una risposta.
Per lo studio saranno utilizzate analisi “in silico”, in cui viene simulata al computer l’interazione tra virus e particolato atmosferico, e anche un modello biologico che riproduce al computer le caratteristiche del virus SARS-CoV-2.
Dall’analisi preliminare si è rilevato che le concentrazioni dei vari inquinanti seguono andamenti diversi. La diminuzione del biossido di azoto (NO2), ad esempio, riguarda le zone in cui è presente il traffico veicolare; e l’andamento mutevole del particolato è dovuto ai cambiamenti del meteo e alle reazioni chimiche che avvengono nell’atmosfera.
Pertanto, l’intento del progetto è di effettuare un’analisi rigorosa e approfondita, sulla base di protocolli scientifici verificabili, e raccogliere informazioni utili a comprendere meglio i fenomeni in atto.
La durata
PULVIRUS avrà una durata di un anno, ma non sarà necessario aspettare così a lungo per vedere i primi risultati.
In qualche mese, infatti, saranno già disponibili risultati significativi: prima fra tutti, l’analisi di fattibilità di un sistema di rivelazione precoce, che ci si augura potrà essere attivato prima del prossimo autunno.
I dati, i modelli e le elaborazioni, nonché i rapporti e le pubblicazioni, saranno resi accessibili ai cittadini e alla comunità scientifica nazionale. Grazie a un sito web dedicato, questa grande mole di documenti costituirà un fondamentale database consultabile per successivi studi.
Presto avremo le risposte che attendiamo.
Nel caso in cui la correlazione tra diffusione dei virus e particolato atmosferico fosse dimostrata scientificamente, essa sarà l’ennesima ragione per cui ridurre l’inquinamento cittadino prodotto da riscaldamenti e autoveicoli.
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Coronavirus e inquinamento: esiste davvero un legame?
Il blocco quasi totale e l’isolamento imposto dai governi a causa dell’epidemia di coronavirus ha ridotto sensibilmente lo smog che avvolgeva le grandi aree metropolitane. Dal 9 marzo in poi i livelli di biossido d’azoto (NO2) a Milano e in altre zone dell’Italia settentrionale sono diminuiti di circa il 40%. Si tratta di uno degli inquinanti più dannosi, che causa da solo la morte di 14.600 persone all’anno in Italia sulle 76.200 totali per inquinamento e polveri sottili (dati Agenzia europea per l’ambiente).
Questa riduzione, confermata dal servizio di monitoraggio dell’atmosfera di Copernicus (programma di osservazione della Terra della UE), è la sola notizia lieta legata all’epidemia di Covid-19.
Covid-19 e polveri sottili
Nelle ultime settimane si è diffusa la convinzione di una correlazione diretta tra inquinamento atmosferico e contagio da coronavirus.
Si è ipotizzato che una alta concentrazione di particolato (PM10, PM2.5) aumenti il rischio di infezione e di complicanze della malattia.
È noto, d’altronde, che l’inquinamento atmosferico da PM 2.5, sia uno dei fattori di rischio più importanti per la salute, dopo la dieta, il fumo, l’ipertensione e il diabete: sono 2.9 milioni all’anno i morti in tutto il mondo. L’inquinamento atmosferico, infatti, aumenta il rischio di cardiopatia ischemica, ictus e malattia polmonare ostruttiva cronica, tra le altre.
Si è anche ipotizzato che il particolato atmosferico possa fungere da veicolo (carrier) per la diffusione del virus nell’aria, ma ciò non risulta possibile dal punto di vista biologico. Il PM, infatti, ha la capacità di trasportare particelle biologiche (batteri, virus, pollini, spore, funghi, alghe), ma è improbabile che i coronavirus possano rimanere attivi all’aperto per un tempo prolungato. Questo perché temperatura, essiccamento e UV compromettono l’involucro del virus pregiudicando così la sua capacità infettiva.
A tal proposito è bene fare chiarezza e considerare attentamente gli studi che sono stati effettuati finora.
Cosa dicono gli studi scientifici
Ad oggi sono stati imbastiti due studi.
In Italia, il Position Paper della Società Italiana di Medicina Ambientale ha suggerito che il contributo dell’inquinamento al contagio è plausibile sia come veicolo (carrier) sia come amplificatore (boost) degli effetti sui polmoni del virus.
Lo studio ha osservato le province italiane mettendo confronto la proporzione di superamenti del PM10 nelle centraline di ciascuna provincia con il numero di casi da Covid-19 nei 14 giorni successivi.
La relazione è risultata evidente, ma l’analisi non considerava in dettaglio i dati di inquinamento ma solo i superamenti dei limiti consentiti e tralasciava altri fattori.
Questi difetti sotto punto di vista metodologico hanno spinto le autorità ad auspicare ulteriori studi con evidenze scientifiche più solide.
Un altro studio, diffuso dai ricercatori di Harvard (Xiao Wu, 2020), ha messo sotto indagine la relazione tra esposizione prolungata a PM2.5 e il rischio di morte per Covid-19 negli Stati Uniti.
Il risultato è stato un aumento del 15% della mortalità, con riferimento a tutta la popolazione, associato ad un incremento di 1 ug/m3 di PM2.5.
Secondo lo studio il virus si sarebbe diffuso con maggiore rapidità nelle zone con popolazione più esposta all’inquinamento, e quindi più fragile.
Tuttavia, anche questo lavoro è parzialmente invalidato da gravi problemi metodologici.
Lasciamo la scienza agli scienziati
In conclusione, possiamo affermare che le prove scientifiche non sono ancora sufficienti a dimostrare una relazione diretta tra contagio e inquinamento.
L’inquinamento è responsabile di una strage quotidiana che fa impallidire qualunque epidemia, ma al momento attuale non è possibile attribuire ad esso anche la diffusione del Covid-19.
Le decine di articoli pubblicati in rete e condivisi sui social network, perciò, non riportano informazioni esatte. Con questo articolo, speriamo di aver fatto un po’ di chiarezza sull’argomento.
In questo periodo di incertezza e preoccupazione per il futuro, pensiamo che sia fondamentale informare nella maniera giusta e non diffondere notizie incerte. Lo dobbiamo a tutti coloro che stanno soffrendo a causa dell’epidemia e ai tanti professionisti che stanno lavorando per riportarci alla normalità.
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