
GWEC: eolico offshore protagonista del boom 2021
Dopo un anno di flessione la crescita dell’eolico offshore è ripartita con decisione trainando il proprio settore e le energie rinnovabili.
Il 2020, infatti, è stato un anno da record per l’energia eolica con una crescita della capacità installata del 50% rispetto all’anno precedente. Parliamo di 93 GW in più, spartiti soprattutto tra Cina e Stati Uniti d’America.
In controtendenza, invece, è stato l’eolico in mare aperto, a causa delle conseguenze della pandemia durante i primi mesi del 2020.
Secondo il rapporto del GWEC (Global Wind Energy Council), quest’anno la crescita del settore sarà importante e renderà l’eolico offshore assoluto protagonista del trend positivo delle fonti rinnovabili.
Il balzo dell’eolico in mare aperto nel 2021
Le previsioni del GWEC sono assolutamente positive. La Cina trainerà ancora una volta la crescita dell’eolico offshore con circa 7,5GW di nuova capacità installata al largo delle sue coste nel 2021.
Persino nell’anno della pandemia, in piena flessione del settore, la Cina ha aveva contribuito con 3 GW: la metà della crescita mondiale. Una quota che è destinata ad aumentare ulteriormente.
Grazie al gigante asiatico, prevede il rapporto del GWEC, la nuova capacità installata a livello globale arriverà a raddoppiare. Se nel 2020 la crescita aveva rallentato fermandosi a un 6,1 GW mentre nel 2019 era stata di 6,24 GW, quest’anno supererà i 12 GW.
Gli obbiettivi dell’Accordo di Parigi restano lontani
I numeri dell’eolico offshore per quest’anno si prospettano indubbiamente notevoli. Il ritmo della crescita sta accelerando e non dovrebbero esserci all’orizzonte nuove flessione dopo quella del 2020. In questo decennio si prevede l’installazione di 235 GW, ma non basta.
Questo ritmo non risulta ancora sufficientemente rapido per supportare quella transizione energetica fondamentale per arginare il cambiamento climatico in atto. Gli obbiettivi fissati nell’Accordo di Parigi nel 2015 restano molto lontani dall’essere raggiungibili: come sottolinea il GWEC nel rapporto, il ritmo del settore eolico dovrebbe triplicare per riuscirci.
Secondo l’Agenzia Internazionale per l’Energia (IEA), infatti, la nuova capacità installata dei parchi eolici offshore deve toccare i 2.000 GW entro 2050.
La strada verso la completa sostenibilità del sistema energetico è ancora molto lunga e difficile. L’eolico offshore apporterà un contributo sempre più importante ma questo potrebbe non bastare nel lungo periodo.
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Deep Sea Mining, i rischi delle miniere in mare aperto
Miniere in mare aperto, a grandissime profondità, sfruttate da piccoli robot: ecco il Deep Sea Mining, lo sfruttamento minerario dei fondali marini per sostenere la transizione ecologica.
Ma quali sono le ragioni che spingerebbero a investire in imprese di questo tipo? Si dà il caso che i fondali oceanici siano ricchi di metalli rari che diventeranno sempre più richiesti sul mercato nei prossimi anni.
La tanto auspicata transizione ecologica, infatti, dipenderà dalla disponibilità di metalli come cobalto, nichel e rame. Materiali indispensabili per la produzione di batterie, tecnologie legate alle energie rinnovabili , smartphone e, naturalmente, collegamenti elettrici.
Se fino a poco tempo fa le compagnie minerarie si sono limitate a finanziare esplorazioni e mappature dei fondali oceanici, la spinta della transizione ecologica ha rinnovato l’interesse verso il Deep Sea Mining.
Questi metalli sono rari e sempre più richiesti, fattori che ne hanno fatto impennare il costo rendendoli appetibili per le compagnie minerarie.
Il campo è totalmente nuovo e necessita una tempestiva regolamentazione, ma la mancanza di studi approfonditi sui fondali oceanici rende ciò un salto nel buio.
Quali potrebbero essere i danni ambientali del Deep Sea Mining è ancora un’incognita ma le istituzioni si stanno già muovendo per emettere le prime concessioni di sfruttamento.
L’Unione Europea, con la sua agenzia per la regolamentazione dei fondali marini (ISA, International Seabed Authority), progetta di ottenere un accordo globale entro due anni; mentre la Norvegia intende già emettere i primi permessi entro il 2024.
Quali danni ambientali potrebbe provocare il Deep Sea Mining?
Le miniere in mare aperto potrebbero danneggiare la flora e la fauna dei fondali marini?
Per rispondere a questo quesito, gli esperti dovrebbero avere a disposizione studi approfonditi sui fondali che, purtroppo, ad oggi ancora non esistono.
La profondità, infatti, rende molto difficili le indagini scientifiche: parliamo di fondali a una profondità di 4.000-5.000 metri. Non a caso, per la raccolta dei cosiddetti noduli polimetallici che contengono i metalli rari vengono impiegati piccoli robot.
Gli unici studi esistenti sono quelli che la ISA dichiara di possedere ma si basano su dati forniti dalle stesse compagnie minerarie che mirano a sfruttare i giacimenti oceanici.
Tutte le ipotesi
Sui potenziali pericoli derivati dal Deep Sea Mining sono state avanzate una serie di ipotesi.
Prima di tutto, alcune ricerche ipotizzano che il rumore provocato dalle operazioni di estrazione potrebbe avere un impatto dannoso sulla fauna marina.
Analogamente, altre ricerche sottolineano il potenziale impatto luminoso e quello legato alle vibrazioni.
Inoltre, tra le conseguenze più pericolose c’è il sollevamento di nubi di sedimenti causato dalle operazioni di estrazione dei noduli polimetallici. Queste nubi danneggerebbero gli ecosistemi e, soprattutto, trasporterebbero in superficie metalli pesanti grazie al fenomeno dell’upwelling, mettendo a rischio tutta la colonna d’acqua soprastante con gli organismi presenti.
Ad oggi, l’unico criterio applicabile è quello del principio di precauzione (do not harm principle), che consiste nel bloccare le attività fino a quando non si avranno informazioni più precise sulla loro pericolosità.
Tuttavia, è chiaro che il processo che porterà alle concessioni si sia ormai messo in moto. Urgono studi indipendenti sul Deep Sea Mining su cui basare una regolamentazione che salvaguardi l’ambiente marino.
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L’idrogeno verde avrà un ruolo chiave nella transizione energetica
Secondo numerosi studi, l’idrogeno verde potrebbe arrivare a soddisfare il 24% della domanda finale di energia, riducendo al contempo le emissioni di CO2 per ben 560 milioni di tonnellate e contribuendo così alla transizione energetica.
Previsioni come questa fanno ben sperare per il futuro ma è necessario porsi alcune domande sull’idrogeno:
- È davvero sostenibile dal punto di vista ambientale?
- Sarà un giorno davvero competitivo con i combustibili fossili?
Proveremo a rispondere a queste domande ma, prima di tutto, facciamo un chiarimento: non tutto l’idrogeno è verde!
Verde, blu, grigio e le altre tipologie
No, non parliamo di gas colorati. L’idrogeno ha tutto lo stesso aspetto: è trasparente, almeno allo stato gassoso.
La ragione per cui esistono denominazioni diverse è il procedimento che viene impiegato per produrlo.
L’idrogeno, infatti, è un gas molto abbondante in natura che, però, non si trova mai allo stato “libero” ma sempre legato ad altre molecole. Deve quindi essere estratto, “separato”, da queste molecole.
Per innescare questo processo chimico, però, bisogna fornire energia. Se si tratta di energia pulita e rinnovabile, e la reazione non emette CO2 o altri gas inquinanti (come nel caso dell’idrogeno da fotovoltaico), allora l’idrogeno prodotto sarà “verde”.
Ecco la classificazione dell’idrogeno nel dettaglio:
- Idrogeno nero. Estratto dalle molecole d’acqua utilizzando energia elettrica prodotta da centrali a carbone o a petrolio. È la tipologia meno ecosostenibile.
- Idrogeno grigio. Viene estratto dal metano o altri idrocarburi emettendo carbonio, oppure può essere recuperato dallo scarto produttivo di una reazione chimica.
- Idrogeno Blu. Anche questa tipologia viene estratta da idrocarburi fossili ma la CO2 prodotta nel processo viene immagazzinata.
- Idrogeno Viola. Viene prodotto senza l’impiego di idrocarburi ma usando l’acqua grazie a energia proveniente da centrali nucleari. È quindi a emissioni di CO2 zero.
- Idrogeno Verde. Estratto dall’acqua con l’ausilio di energia elettrica rinnovabile, ad esempio prodotta da centrali fotovoltaiche, idroelettriche o eoliche.
Idrogeno da fotovoltaico sempre più competitivo
L’idrogeno da fotovoltaico, ovvero quello prodotto con corrente elettrica proveniente da centrali solari, ha visto il suo costo decrescere nel tempo.
Questa tendenza sembra destinata a continuare secondo un recente studio di BloombergNEF, che ha rivisto la sua precedente previsione al ribasso. Entro il 2050, il costo dell’idrogeno da fotovoltaico dovrebbe, infatti, scendere dell’85% (1$ al kg). In questo modo, l’idrogeno verde diventerà più competitivo del gas naturale e dell’idrogeno blu e grigio.
Tutto ciò grazie al costante calo dei costi del fotovoltaico, reso possibile a sua volta dalla maggiore automazione della produzione, dal minor impiego di silicio e argento, dall’accresciuta efficienza delle celle solari e dall’introduzione dei moduli bifacciali.
Secondo BloombergNEF, rispetto alle stime di 2 anni fa, l’elettricità da fotovoltaico costerà il 40% in meno nel 2050.
C’è, inoltre, un altro fattore determinante: la diminuzione dei costi degli elettrolizzatori.
Idrogeno verde per la transizione energetica
L’Unione Europea considera l’idrogeno verde di cruciale importanza per la realizzazione della transizione energetica e il raggiungimento della neutralità climatica entro il 2050.
Come abbiamo spiegato, il potenziale dell’idrogeno verde è enorme e la sua competitività con i combustibili fossili andrà crescendo negli anni.
Rappresenta, inoltre, una grande opportunità per l’Italia, che potrebbe assumere il ruolo di hub dell’energia verde per l’Eurozona importando idrogeno verde dal Nord Africa a un prezzo del 10-15% inferiore rispetto a quello prodotto localmente (dall’analisi “H2 Italy 2050” di The European House-Ambrosetti e Snam).
L’idrogeno da solo potrebbe soddisfare il 23% della domanda energetica italiana e ridurre del 28% le emissioni nocive.
Le prospettive sembrano ottime: l’idrogeno verde avrà un ruolo chiave nel processo di decarbonizzazione dell’Europa e nella transizione energetica.
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Edilizia sostenibile: per ridurre consumi ed emissioni di CO2
Il concetto di sviluppo sostenibile, da cui è derivato quello di edilizia sostenibile, risale al periodo della crisi petrolifera degli anni Settanta ma in anni recenti è tornato d’attualità.
I motivi sono facilmente intuibili e riguardano la presa di coscienza da parte dell’umanità di minacce ambientali che ormai non può più ignorare.
Quando si parla di impatto ambientale ed emissioni di CO2, il discorso verte quasi sempre su trasporti inquinanti e fonti d’energia di origine fossile. Insomma, i colpevoli sono sempre i vecchi combustibili: il petrolio e, soprattutto, il carbone.
È fuori ogni dubbio che cambiare la maniera in cui si produce energia sia cruciale per ridurre l’inquinamento e il riscaldamento globale, ma ciò che viene spesso tralasciato è l’impatto ambientale dell’edilizia.
I dati raccolti in un rapporto dell’Onu, infatti, mostrano che il settore delle costruzioni è responsabile di più del 38% delle emissioni legate all’energia a livello globale.
In quali modi gli edifici consumano energia e causano emissioni di CO2? Ecco alcuni esempi:
- il riscaldamento
- il rinfrescamento
- la produzione di acqua calda sanitaria
- l’illuminazione
- la ventilazione
- il funzionamento degli elettrodomestici
- la produzione degli strumenti e dei materiali edili utilizzati nella costruzione
- il trasporto e il montaggio dei suddetti materiali
Tutto il processo ha un impatto ambientale: dalla costruzione al normale funzionamento degli edifici.
Ecco perché abbiamo bisogno, ora più che mai, di un’edilizia sostenibile. Vale a dire, un’edilizia consapevole e responsabile.
È possibile costruire un edificio a emissioni di CO2 zero?
Le moderne tecniche di costruzione, insieme all’utilizzo di materiali innovativi, permettono già oggi di ottenere edifici ad altissima efficienza energetica.
Nello specifico è doveroso fare una distinzione tra due standard qualitativi di costruzioni edili:
- NZEB (Nearly Zero Energy Building), ovvero edifici a elevata efficienza energetica;
- NZCB (Net Zero Carbon Buildings), ovvero edifici a emissioni zero.
Edilizia sostenibile: gli edifici a elevata efficienza energetica (NZEB)
Gli NZEB sono edifici dalle prestazioni elevatissime, progettati secondo i principi dell’edilizia sostenibile e del risparmio energetico.
Lo scopo della progettazione è ridurre al minimo il consumo di energia e ciò viene fatto impiegando una serie di soluzioni tecnologiche e progettuali. Ma non finisce qui: la restante quantità d’energia richiesta dall’edificio viene soddisfatta attingendo solo da fonti rinnovabili.
In questo modo, è possibile non solo costruire edifici eco-sostenibili, ma con i giusti interventi di riqualificazione, trasformare datati edifici energivori in classe A.
Gli NZEB sono in grado di adattarsi al mutare delle stagione e quindi delle condizioni di luce e calore.
In inverno l’edificio deve sfruttare al massimo la luce solare e accumularne il calore, oltre che impedirne la dispersione con un isolamento termico efficiente.
In estate, invece, le priorità sono opposte: l’edificio dovrà essere schermato per assicurare un clima fresco grazie alla giusta tecnica di isolamento termico e a sistemi di ombreggiamento.
I vantaggi degli edifici NZEB non finiscono qui: anche dal punto di vista economico, infatti, sono molto convenienti grazie ai bassi costi di gestione.
Edilizia sostenibile: gli edifici a emissioni zero (NZCB)
Si tratta di un concetto piuttosto recente che ha il compito di sottolineare il ruolo dell’edilizia nella transizione verso un’economia a impatto climatico azzerato.
Al centro è messo, non il risparmio energetico, ma il tipo di energia utilizzata e il relativo impatto ambientale.
Negli NZCB, pertanto, è cruciale che l’energia impiegata sia rinnovabile e pulita. Al contrario di ciò che avviene ancora molto spesso nelle nostre città, dove tantissimi edifici sono ancora riscaldati da caldaie a carbone o petrolio.
A livello formale la differenza tra edifici NZEB e NZCB è l’unità di misura.
Nei primi si calcola la quantità di energia primaria consumata dall’edificio, e perciò l’unità di misura è il kWh al mq annuo.
Nei secondi, invece, oltre all’energia utilizzata, si valuta il suo impatto ambientale e quindi la quantità di CO2 prodotta nella generazione dell’energia che viene consumata nell’edificio. Di conseguenza, l’unità di misura utilizzata è kg al mq annuo di anidride carbonica.
In sostanza, per gli NZEB si calcola l’energia consumata, mentre per gli NZCB le emissioni causate dalla produzione di questa energia.
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