
DL Energia: novità su permessi e autorizzazioni impianti fotovoltaici
Il Dl Energia, chiamato anche decreto bollette, è diventato legge il 21 aprile con l’approvazione al Senato. Come abbiamo spiegato in un recente articolo, il decreto contiene interventi sul caro bollette e a favore delle imprese, oltre che incentivi alla mobilità sostenibile e alla semplificazione dell’iter autorizzativo per l’installazione di impianti fotovoltaici.
In questo articolo ci concentreremo proprio sulla semplificazione delle norme che riguardano i pannelli solari in ambito residenziale, industriale e agricolo.
DL Energia: Impianti fotovoltaici e termici
La novità più rilevante che troviamo nel decreto energia è sicuramente la comparazione a interventi mi manutenzione ordinaria di:
- installazione di impianti solari fotovoltaici e termici su edifici e su strutture e manufatti fuori terra (zona A), a prescindere dalla modalità della realizzazione
- la realizzazione delle opere atte alla connessione alla rete elettrica
Ciò significa che le installazioni non sono più subordinate all’acquisizione di permessi, autorizzazioni o atti amministrativi di assenso: una notevole semplificazione dell’iter che dovrebbe favorire e velocizzare l’aumento di capacità rinnovabile tra i privati.
A questa disposizione il decreto bollette distingue alcune eccezioni. In particolare sono esclusi gli impianti installati su beni paesaggistici di grande interesse pubblico: le ville, i parchi, giardini e gli immobili che hanno valore estetico e storico. Per casi di questo tipo, fotovoltaico, solare termico e opere di connessione alla rete elettrica resta necessario ottenere il nulla osta paesaggistico.
Tuttavia, nel caso in cui i pannelli siano integrati nelle coperture e non visibili dagli spazi pubblici esterni e dai punti di vista panoramici, e che i detti manti di copertura non siano realizzati in materiali della tradizione locale, non sono richieste autorizzazioni o atti di assenso.
Anche nel merito della comunicazione di realizzazione degli impianti, il DL Energia semplifica la procedura: per gli impianti di potenza superiore a 50 KW e fino a 200 KW che non necessitano di permessi, autorizzazioni e atti di assenso, basterà il modello unico semplificato.
Le nuove disposizioni del DL Energia per la modifica degli impianti
Anche per i casi di interventi di modifica di impianti di produzione di energia elettrica alimentati a fonti rinnovabili le disposizioni hanno lo scopo di semplificare le procedure. Per effettuare modifiche, infatti, è possibile seguire l’iter semplificato. Nel caso in cui la modifica non sostanziale comporti l’aumento della potenza installata e necessiti di ulteriori opere connesse, queste ultime vengono autorizzate con la procedura semplificata applicabile all’intervento non sostanziale, tramite dichiarazione di inizio lavori asseverata (Dila).
Aree idonee e impianti agrivoltaici
Il decreto applica la Procedura abilitativa semplificata (Pas) anche nei casi di connessione alla rete elettrica di alta tensione e alle relative opere di connessione.
Inoltre, la Pas viene estesa ai progetti di nuovi impianti fotovoltaici agricoli (agrivoltaici), di potenza non superiore a 10 MW, nelle aree idonee (nel raggio di tre chilometri dalle aree industriali, artigianali e commerciali).
Il decreto energia introduce anche deroghe alla norma che vieta, per gli impianti agrivoltaici, di accedere agli incentivi statali a favore delle fonti energetiche rinnovabili.
Impianti flottanti e aree industriali
La stessa operazione riguarda gli impianti fotovoltaici flottanti, ovvero installati sulla superficie di invasi e di bacini idrici, inclusi quelli di cave dismesse e a copertura dei canali di irrigazione. In questo caso la Pas si applica agli impianti flottanti di potenza sino a 10 MW, con annesse opere funzionali alla connessione alla rete elettrica.
Cambiano infine anche le norme per l’installazione del fotovoltaico nelle aree industriali. Il decreto dà ora la possibilità di installare impianti solari fotovoltaici e termici per una superficie fino al 60% dell’area industriale di pertinenza.
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Autoconsumo collettivo, aggiornate le norme delle comunità energetiche
L’autoconsumo collettivo, reso possibile dalla costituzione di comunità energetiche, è una delle tendenze più interessanti nel settore delle energie rinnovabili. Produrre e condividere l’energia localmente potrebbe infatti essere il modello energetico del futuro e sembrano averlo capito anche le istituzioni che, faticosamente, stanno aggiornando le norme relative alle CER (comunità energetiche rinnovabili).
L’11 aprile scorso il Gestore Servizi Energetici (GSE) ha aggiornato le regole a un anno e mezzo dall’ultima versione del 22 dicembre 2020.
Con questo aggiornamento si prospetta una maggiore semplificazione dell’iter burocratico e un’estensione dei soggetti che possono aderire alle CER.
Le nuove regole per l’autoconsumo collettivo
Tra le principali modifiche al quadro normativo delle comunità energetiche troviamo:
1) l’introduzione della possibilità di creare nuove unità di produzione nel caso cui siano presenti sezioni di impianto autonome, indipendenti e misurabili;
2) l’introduzione di nuovi tipi di CER dal punto di vista giuridico, dando la possibilità a tutti i consumatori, gli azionisti e le autorità locali di partecipare;
3) la rivisitazione della definizione di “condominio” che viene estesa fino a comprendere poli logistici, interporti, centri commerciali e distretti industriali, considerati “supercondomini”;
4) l’introduzione di nuove modalità e tempistiche di calcolo dei contributi economici
5) conferma della disciplina definita dal decreto-legge 162/2019 (il cosiddetto “Milleproroghe”) in attesa della pubblicazione dei provvedimenti previsti dal Dlgs 199/2021 (RED 2)
L’importanza delle comunità rinnovabili: ambiente, energia, comunità
Le comunità energetiche rinnovabili (CER) sono associazioni di consumatori di energia elettrica che, oltre a utilizzare l’elettricità, la producono grazie a un impianto privato o condominiale. I soggetti diventano così dei “prosumer”: allo stesso tempo, consumatori e produttori.
Inoltre, l’energia prodotta tramite fonti rinnovabili viene messa in rete, ovvero condivisa con gli membri della comunità.
Una CER è quindi un soggetto giuridico fondato sulla partecipazione aperta e volontaria, è autonomo rispetto alla rete nazionale (off grid) ed è controllato da azionisti o membri residenti nei dintorni degli impianti di generazione.
Lo scopo delle CER è dare alla comunità benefici di tipo ambientale, economico, sociale e, in alcuni casi, profitti finanziari. Secondo il più recente studio Elemens-Legambiente infatti l’autoconsumo collettivo reso possibile dalle CER può ridurre:
- i costi dell’energia in bolletta fino al 25% per le utenze domestiche e condominiali
- fino al 20% della spesa energetica delle PMI, delle scuole, dei distretti artigiani e altro
In una fase storica di profonda instabilità economica e crisi energetica, le comunità energetiche rappresentano un fattore di velocizzazione della transizione energetica e di supporto economico alle famiglie e alle imprese.
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Approvato recepimento direttive UE su rinnovabili e mercato dell’energia
Il Consiglio dei Ministri ha approvato gli ultimi due decreti attuativi riguardanti due importanti direttive UE: la Red II, sulle rinnovabili (2018/2001) e la direttiva sul mercato interno dell’energia elettrica (2019/904).
Una buona notizia, si direbbe. Peccato che l’approvazione dei decreti di recepimento arrivi in ampio ritardo rispetto alla scadenza fissata dall’Unione Europea.
Le direttive UE in questione, infatti, fanno parte del pacchetto del 2016 e dovevano essere inserite nel diritto nazionale entro il 30 giugno 2021. A causa di questo ritardo, l’Italia si è guadagnata una lettera di messa in mora da parte della Commissione europea.
Tuttavia, l’attuazione del direttive resta molto importante per il loro potenziale impatto sulla transizione ecologica del nostro Paese.
Vediamo nel dettaglio di che cosa si tratta.
Il decreto di recepimento della RED II
La Renewable Energy Directive 2018/2001, la direttiva europea meglio conosciuta come RED II, è incentrata sulle energie rinnovabili.
La RED II stabilisce che il contributo delle energie rinnovabili sul consumo finale lordo di energia in Europa dovrà toccare il 32%.
All’Italia nello specifico è richiesto un contributo all’obbiettivo comunitario di almeno il 30%. Un obbiettivo non facile da centrare per il nostro Paese che arriva appena al 18%, mentre la UE nel complesso ha toccato il 19,7% nel 2019.
L’intento della RED II è perciò accelerare la transizione energetica del continente con il progressivo abbandono dei combustibili fossili in favore delle energie rinnovabili.
Il tempo stringe per l’Italia. Gli obbiettivi della RED II, infatti, sono già stati integrati dal “Fit for 55” qualche settimana fa.
Il nuovo pacchetto presentato dalla Commissione Ue, supera i precedenti e stabilisce un taglio delle emissioni di CO2 del 55% entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990.
Si prospetta l’emanazione di una direttiva RED III che avrà l’obiettivo di portare la produzione di energia da fonti rinnovabili al 40% entro il 2030.
La strada per l’Italia è estremamente in salita: in quanto a emissioni siamo fermi a -19,4%.
Nel decreto attuativo della RED II troviamo la volontà di concentrarsi sulla semplificazione degli iter autorizzativi:
«L’approccio per le autorizzazioni è quello della semplificazione e di una partecipazione positiva degli enti preposti al rilascio delle autorizzazioni tramite un percorso condiviso di individuazione di aree idonee.
Per gli incentivi, la scelta è quella di introdurre una forte semplificazione nell’accesso ai meccanismi e, al contempo, fornire una maggiore stabilità tramite l’introduzione di una programmazione quinquennale, al fine di favorire gli investimenti nel settore.» si legge nella sintesi del Consiglio dei Ministri.
Inoltre, è «Centrale la realizzazione delle infrastrutture necessarie per la gestione delle produzioni degli impianti a fonti rinnovabili: prevista un’accelerazione nello sviluppo della rete elettrica e della rete gas e semplificazioni per la realizzazione degli elettrolizzatori alimentati da fonti rinnovabili.»
Il decreto sul mercato interno dell’energia elettrica
Il decreto che recepisce la direttiva UE 2019/944, come si legge nella sintesi dei contenuti del Consigli dei Ministri del 5 agosto, contiene:
«[…]disposizioni volte a disciplinare le nuove configurazioni delle comunità energetiche dei cittadini in modo coordinato con le disposizioni previste dalla direttiva 2001/2018 in materia di comunità energetiche rinnovabili, a rafforzare i diritti dei clienti finali in termini di trasparenza (delle offerte, dei contratti e delle bollette), a completare la liberalizzazione dei mercati al dettaglio salvaguardando i clienti più vulnerabili, ad aprire maggiormente il mercato dei servizi a nuove tipologie di soggetti quali la gestione della domanda e i sistemi di accumulo, a prevedere un ruolo più attivo dei gestori di sistemi di distribuzione, a regolare la possibilità di istituire sistemi di distribuzione chiusi, ad aggiornare gli obblighi di servizio pubblico per le imprese operanti nel settore della generazione e della fornitura di energia elettrica, ad introdurre un sistema di approvvigionamento a lungo termine di capacità di accumulo con l’obiettivo di promuovere lo sviluppo degli investimenti necessari per l’attuazione degli obiettivi del PNIEC.»
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L’Italia è sesto esportatore mondiale di tecnologie delle rinnovabili
Secondo il rapporto “Transizione energetica: la filiera delle tecnologie delle rinnovabili in Italia.”, creato da Direzione studi e ricerche di Intesa Sanpaolo, l’Italia è il sesto Paese esportatore di tecnologie FER (Fonti Energia Rinnovabile) a livello mondiale.
Con il 3% delle esportazioni mondiale, infatti, ci posizioniamo dopo Cina (27%), Germania (11%), Stati Uniti d’America (7%), Giappone e Hong Kong.
Da qui, si evince che a livello europeo il nostro Paese sia secondo solo alla Germania.
Il fatturato complessivo, stimato facendo riferimento a un campione di 400 aziende italiane del settore, è di circa 23 miliardi, con circa 60.000 posti di lavoro (nel 2019).
Altro dato interessante che emerge dal rapporto è che nel settore delle tecnologie FER l’Italia ha un saldo commerciale positivo dal 2013.
E nonostante la pandemia, nel 2020 l’export è calato appena del -2,3%, a differenza del settore manifatturiero che ha subito un crollo del -10%. In questo modo, la filiere delle tecnologie delle rinnovabili ha dimostrato un’ottima resilienza.
Sui brevetti l’Europa batte l’Asia
Tra i brevetti, le tecnologie delle rinnovabili hanno costituito dall’anno 2010 al 2016 quasi il 20% dei brevetti in ambito green a livello mondiale.
Tra questi troviamo:
- Fotovoltaico: 41%
- Eolico: 21%
- Solare termico: 12%
- Biocarburanti: 8%
Nell’ambito dei brevetti, la Cina non ha il ruolo di leader mondiale come nell’export. Ad esempio, nel commercio di dispositivi fotosensibili per pannelli fotovoltaici detiene il 35%, ma a livello di brevetti si ferma al 4%.
I Paesi europei la fanno da padroni con un terzo dei brevetti totali. Il divario si nota soprattutto nell’eolico dove la quota dei brevetti europei raggiunge il 62%.
Tra i Paesi con più brevetti figura anche l’Italia. Sono circa 1.200 i brevetti italiani nel settore delle FER depositati presso l’European Patent Office (al 2018). Il 55% di questi riguardano il fotovoltaico e il termico, mentre nell’eolico sono il 16%.
Da notare il fatto che circa il 40% dei brevetti FER italiani appartengono a piccole o piccolissime imprese.
Ampi investimenti sull’idrogeno
Nel settore dell’idrogeno, secondo il rapporto di Intesa, in Italia si prospetta la possibilità di creare una filiera competitiva.
Le grandi aziende hanno già annunciato importanti investimenti nel settore, ma il dato più interessante riguarda le piccole e medie imprese. Con la loro grande dinamicità e capacità di innovare, sono già molto attive nella ricerca e nella sperimentazione di tecnologie dell’idrogeno.
Si tratta di circa 120 imprese che producono un fatturato totale di 7 miliardi di euro e nel 2019 davano lavoro a oltre 19.000 persone.
E anche sul fronte brevetti si rivelano molto competitive con circa 2600 brevetti depositati, a sottolineare la propensione all’innovazione continua.
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Fusione nucleare: il reattore cinese batte un altro record
Il sogno scientifico della fusione nucleare ha compiuto un deciso passo avanti, grazie al reattore cinese sperimentale EAST (Experimental Advanced Superconducting Tokamak).
Il 28 maggio scorso il reattore ha raggiunto la temperatura record di 120 milioni di gradi celsius, superando ampiamente il precedente.
L’anno scorso, infatti, il Korea Superconducting Tokamak Advanced Research (Kstar) della Corea del Sud si era fermato a 100 milioni di gradi.
Ma il dato più rilevante è quello legato alla stabilità del reattore, che ha mantenuto questa temperatura record per 101 secondi, contro i soli 20 secondi toccati dall’ultimo esperimento.
Insomma, si tratta di un notevole balzo in avanti verso la realizzazione di una tecnologia che potrebbe rivoluzionare il settore energetico risolvendo il problema delle emissioni di CO2 e, allo stesso tempo, rendendo possibile una serie di innovazioni tecnologiche.
Pensate: energia illimitata e praticamente nessun impatto ambientale. Sarebbe una svolta epocale per l’umanità ma, purtroppo, il percorso è ancora lungo.
Vediamo in che cosa consiste la fusione nucleare e che cosa manca affinché diventi una realtà.
Che cos’è la fusione nucleare
L’energia nucleare che viene prodotta nel mondo ormai da molti decenni è resa possibile da un processo chiamato fissione nucleare. Si tratta di un processo in cui atomi di uranio vengono scissi in atomi più leggeri liberando una grande quantità di energia.
Il problema di questo tipo di processo è che produce materiali di scarto, scorie, che sono radioattive come il materiale da cui provengono, l’uranio, e impiegano lunghissimi periodi di tempo per perdere la loro pericolosità. Le scorie rappresentano un problema gravissimo perché devono essere stoccate in strutture sicure per decine o centinaia di anni.
Il motivo per cui la fusione nucleare potrebbe essere la svolta è che essa non produce, se non in quantità trascurabili, scorie radioattive.
Nella fusione nucleare, due atomi leggeri vengono fusi per produrne uno più pesante e viene liberato un gran quantitativo di energia in eccesso da cui generare elettricità. Niente gas inquinanti e minime quantità di scorie.
Si tratta della reazione che avviene continuamente nelle stelle, come nel nostro Sole, generando un flusso ininterrotto di energia.
Che cosa manca per ottenerla
Gli scienziati cinesi del Experimental Advanced Superconducting Tokamak, in sostanza, hanno creato un piccolo Sole in un reattore nucleare.
A differenza del Sole, però, che può contare su una spropositata forza di gravità per avviare la fusione nucleare, i reattori devono contare su potentissimi generatori in grado di rimanere stabili.
Il risultato di 120 milioni di gradi celsius è sbalorditivo.
Basti pensare che il record precedente di 100 milioni di gradi era già stato considerato un successo. Quella è, infatti, la temperatura a cui si può ottenere una reazione autosufficiente: il reattore può iniziare a produrre più energia di quanta ne consuma senza necessitare l’immissione di ulteriore energia.
Da questo risultato alla costruzione di un vero reattore a fusione nucleare, però, la strada è ancora lunga e faticosa.
Il prossimo traguardo dovrebbe essere previsto per il 2025: l’International Thermonuclear Experimental Reactor, un ambizioso progetto internazionale a cui partecipa anche la Cina, progetta l’avvio delle operazioni con l’iniezione del plasma per la prima volta.
In attesa della rivoluzione energetica che potrebbe portare la fusione nucleare, è bene concentrarci sulla transizione verso fonti d’energia rinnovabili.
Il tempo stringe, ormai ne siamo profondamente consapevoli.
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Rinnovabili: l’Italia non tiene il passo dell’Europa
Le energie rinnovabili hanno continuato a crescere anche nel 2020, nonostante il lockdown dovuto alla pandemia. Questo, però, è un dato a livello globale che non rispecchia la situazione italiana.
Mentre in Europa la potenza installata superava i 650 GW, soprattutto grazie a fotovoltaico ed eolico, in Italia nel 2020 le nuove installazioni sono diminuite.
Il calo era già cominciato nel 2018 e lo scorso anno si è confermato.
Secondo i dati raccolti nel settimo rapporto dell’Energy & Strategy Group della School of management del Politecnico di Milano, le installazioni di impianti d’energia rinnovabile sono calati del 34,5% nel nostro Paese: 427 MW in meno rispetto al 2019.
A contribuire a questo crollo è stato soprattutto l’eolico che ha toccato un preoccupante -79% di installazioni, scese dai 413 MW del 2019 agli 85 MW del 2020.
A guidare la classifica delle installazioni nel 2020 è stato il fotovoltaico con 625 MW. Per quanto riguarda idroelettrico e biomasse, si sono fermati rispettivamente a 66 MW e 8 MW.
Insomma, sulle rinnovabili l’Italia è bloccata dal 2018.
Le ragioni del ritardo
Per una volta, gli investimenti nel settore non sembrano essere il problema. A frenare la corsa delle rinnovabili in Italia sembra essere, secondo il rapporto, la complessità delle norme e dei regolamenti del nostro Paese in materia.
Questo rallenterebbe lo sviluppo del mercato e causerebbe anche un aumento dei costi. I tempi di attesa lunghissimi per ottenere le autorizzazioni, infatti, spingono meno impianti a partecipare nelle aste e causano problemi organizzativi e di pianificazione.
È necessario fare chiarezza, ora più che mai, sulle procedure e i tempi di rilascio dei permessi.
Inoltre, gli operatori sono in attesa di capire la portata degli interventi che il governo Draghi ha inserito nella documentazione trasmessa all’Unione Europea per ottenere i fondi del Next Generation Ue.
Nel frattempo, prudentemente, preferiscono aspettare e rimandare la loro partecipazione alle prossime aste con il nuovo regolamento.
Non è un caso che nell’ultima asta del Gse (Gestore dei Servizi Energetici) la domanda delle imprese abbia coperto appena il 12% della capacità offerta.
Il Pnrr e le prospettive di crescita delle rinnovabili
Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr) prevede 5,9 miliardi di euro fino al 2026 per il settore delle rinnovabili, ma potrebbe non bastare per rimettere l’Italia al passo con l’Europa.
Secondo Davide Chiaroni, vicedirettore dell’Energy & Strategy Group, soltanto per centrare gli obiettivi del Piano energia e clima 2030 del precedente governo, le installazioni dovrebbero crescere del 175%.
La soluzione proposta da più parti è quella di una semplificazione dell’iter autorizzativo e un ammodernamento degli impianti e dell’infrastruttura di trasmissione.
Nell’ultimo anno sono state introdotte alcune norme a riguardo ma, secondo il rapporto del Politecnico e le opinioni degli operatori del settore, mancano ancora interventi davvero mirati per rilanciare il mercato delle rinnovabili in Italia. Manca un po’ di coraggio in più.
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Le comunità energetiche saranno fondamentali per la transizione energetica
Le comunità dell’energia rinnovabile (o comunità energetiche) si annunciano come una vera rivoluzione nel modo in cui produciamo, usiamo, scambiamo, compriamo, vendiamo e accumuliamo l’energia elettrica pulita.
Le comunità energetiche sono, infatti, insiemi di persone che producono e scambiano alla pari energia pulita.
L’esempio più semplice è quello del condominio: un impianto fotovoltaico in comune con tutti i condomini, installato sfruttando gli incentivi statali, fornisce energia gratuita a tutte le abitazioni.
Naturalmente, il condominio può restare allacciato alla rete per attingervi nei momenti in cui l’impianto produce poca energia; oppure può dotarsi di sistemi di accumulo di elettricità.
Una vera e propria comunità energetica, invece, include svariati edifici residenziali e commerciali.
Ognuno di questi edifici è dotato di pannelli solari che producono energia che potrà essere consumata all’interno della comunità stessa, oltre che scambiata, ceduta o venduta.
Il primo vantaggio che si ottiene con questo sistema è che, consumando l’energia prodotta sul posto senza trasferirla a grande distanza, si riducono le dispersioni e, quindi, i consumi e i costi.
Lo scopo delle comunità energetiche, infatti, è razionalizzare il consumo e la produzione di energia pulita per apportare benefici all’ambiente, oltre che alla comunità.
Per questo motivo sono state pensate per essere comunità puramente non profit.
Comunità energetiche e transizione energetica
Uno degli ostacoli alla diffusione delle energie rinnovabili è la diffidenza della popolazione.
Esistono ancora troppi contrasti e pregiudizi da superare quando si tratta di realizzare impianti di energie rinnovabili.
Proprio su questo punto si inseriscono le comunità energetiche come fattore fondamentale per la transizione energetica, che non consiste solo nell’applicazione di nuove tecnologie “verdi”, ma necessita anche della partecipazione attiva dei cittadini.
Le comunità energetiche possono fare proprio questo: avvicinare e coinvolgere i cittadini nel processo di transizione energetica.
L’Italia in prima linea
L’Italia è all’avanguardia nel campo delle comunità energetiche e sono già numerosi i progetti pilota su tutta la Penisola.
In Piemonte, la Comunità Energetica del Pinerolese, in collaborazione con il politecnico di Torino e Acea, è al lavoro per realizzare una comunità energetica che comprenderà vari Comuni della città metropolitana di Torino.
Si tratta di un progetto interessante e molto ambizioso in cui saranno coinvolti aziende e comuni con l’obbiettivo di produrre energia da fonti rinnovabili.
Intanto, a Bologna è in fase di costruzione il progetto GECO nel quartiere Pilastro-Roveri della zona nordest della città, promosso da ENEA e Università di Bologna.
Per il sud Italia, invece, citiamo il progetto della comunità energetica di Roseto Valfortore.
In questo comune pugliese di circa 1000 abitanti, sta nascendo un sistema di infrastrutture per la produzione e l’accumulo di eolica e fotovoltaica che si combinano con tecnologie e servizi di distribuzione intelligente (smartmeter, nanogrid, powercloud).
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Pompaggio idroelettrico: una risorsa rinnovabile dimenticata
Chi ha mai sentito parlare di pompaggio idroelettrico? La transizione energetica è un tema caldissimo di questi tempi e al centro dell’attenzione figurano sempre fotovoltaico, eolico e idrogeno.
L’idrogeno è la tendenza del momento e molte speranze sono riposte nelle sue potenzialità di stoccaggio al lungo termine dell’energia rinnovabile.
Questo perché le tecnologie di accumulo non sono ancora abbastanza efficienti da garantire l’apporto di elettricità nei “periodi morti” delle rinnovabili.
Si tratta, infatti, di fonti intermittenti che producono enormi quantità d’energia ma non in modo costante.
Ecco perché è fondamentale stoccarla per poi utilizzarla quando serve.
L’idrogeno prodotto attraverso il processo di elettrolisi grazie all’energia rinnovabile diventa così energia stoccata a lungo termine.
Una soluzione ideale ma che comporta una dispersione d’energia: solo il 40% è effettivamente utilizzabile.
Perché parliamo di idrogeno in un articolo sull’idroelettrico? Ve lo spieghiamo subito.
Il potenziale dell’idroelettrico in Italia
In Paesi poco montuosi come Germania e Gran Bretagna, ad esempio, lo stoccaggio dell’energia nell’idrogeno è ad oggi la soluzione migliore.
Ma che dire di Paesi con estese catene montuose come l’Italia?
Nel nostro caso esiste una soluzione più semplice ed efficiente per stoccare l’energia: il pompaggio idroelettrico.
Questo sistema, infatti, permette di avere una resa doppia rispetto al ciclo dell’idrogeno: l’80% contro il 40% (senza recupero del calore di conversione).
Secondo uno studio di Matthew Stocks, della Australian National University, nel mondo esistono più di 616mila località adatte alla costruzione di impianti di pompaggio idroelettrico a circuito chiuso.
Si tratta di impianti costituiti da due bacini, posizionati a un dislivello di almeno 100 metri uno dall’altro, tra i quali fluisce acqua allo scopo di accumulare energia.
Il potenziale di accumulo totale stimato è di 23.000 TWh l’anno, sufficiente a immagazzinare tutta l’energia elettrica prodotta nel mondo.
Per quanto riguarda l’Italia gli impianti esistenti sono di appena 8 GW (quasi tutti nel nord), una frazione del potenziale esistente.
Come funziona
Come anticipato poc’anzi, questi sistemi di pompaggio idroelettrico si basano sul travaso di acqua tra due serbatoi posti a quote diverse.
Viene utilizzata energia a basso costo (acquistata nelle ore notturne) per pompare l’acqua al serbatoio superiore grazie all’impiego di turbine reversibili.
Poi, nei periodi di picco della domanda, si produce energia facendo fluire l’acqua verso il basso e azionando delle turbine.
Dal punto di vista economico, questo processo è conveniente solo grazie al fatto che l’energia spesa per pompare l’acqua è stata acquistata sottocosto.
Utilizzando, invece, energia rinnovabile prelevata nei periodi di picco, si può stoccare questa energia a lungo termine.
Ad esempio, con l’elettricità in eccesso prodotta da un impianto fotovoltaico si può pompare acqua da un bacino a un altro a quota più elevata.
Poi, quando quell’energia sarà richiesta, la si potrà riconvertire in elettricità rilasciando l’acqua e facendo così girare le turbine.
Il futuro del pompaggio idroelettrico
Ad oggi, gli investimenti sono concentrati nel settore dell’idrogeno, forse perché l’industria dei combustibili fossili può impiegare per l’idrogeno le stesse infrastrutture che distribuiscono il metano.
Di conseguenza, puntare sull’idrogeno permetterebbe alle grandi compagnie di ammortizzare meglio la transizione energetica.
Sembra proprio che il pompaggio idroelettrico resterà ignorato ancora a lungo e per l’Italia sarà l’ennesima occasione non sfruttata.
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Lo stoccaggio dell’energia elettrica per la transizione verde
Per vincere la sfida delle rinnovabili, è necessario avere a disposizione sistemi di stoccaggio dell’energia elettrica affidabili.
Solare ed eolico, infatti, sono fonti intermittenti e che non sono disponibili 24 ore su 24.
Ecco perché, se le fonti d’energia rinnovabile sono state in forte crescita nell’ultimo decennio, presto esploderà anche lo stoccaggio.
Secondo un recente rapporto della società di ricerca Wood Mackenzie, il mercato globale dello stoccaggio di energia crescerà con un tasso annuale composto del 31% entro il 2030.
Ci si aspetta che la crescita inizi ad accelerare proprio alla fine di quest’anno per supportare la transizione verso un sistema sostenibile.
Intanto, le grandi potenze mondiali ne hanno compreso l’importanza e si stanno muovendo in questa direzione.
L’Europa dà priorità allo stoccaggio dell’energia
Il Parlamento Europeo è decisamente orientato verso la necessità di potenziare i sistemi di stoccaggio dell’energia elettrica in Europa.
In una relazione non legislativa approvata il 2 luglio scorso, gli eurodeputati hanno delineano la loro strategia per lo stoccaggio dell’energia, affermando che esso sarà cruciale per il raggiungimento degli obiettivi dell’accordo di Parigi sui cambiamenti climatici.
Secondo Claudia Gamon, (relatore – Renew Europe, AT):
“L’immagazzinamento dell’energia sarà essenziale per la transizione verso un’economia decarbonizzata basata su fonti di energia rinnovabili. Poiché l’elettricità generata dall’energia eolica o solare non è sempre disponibile nelle quantità necessarie, dovremo immagazzinarne maggiori quantità.
Oltre alle tecnologie che già sappiamo funzionare bene, come lo stoccaggio d’acqua per pompaggio, anche altre tecnologie ricopriranno un ruolo fondamentale in futuro, come le tecnologie per le batterie, lo stoccaggio termico e l’idrogeno verde.
Queste tecnologie dovranno avere accesso al mercato per garantire una fornitura costante di energia ai cittadini europei”.
L’Europa, però, non è la sola a muoversi in questa direzione.
Anche negli Stati Uniti d’America e in Cina, i più grandi consumatori d’energia del mondo, il settore dello stoccaggio si sta sviluppando.
Il primato spetta agli USA
Nonostante le politiche a favore dei combustibili fossili anche in America il settore dello stoccaggio dell’energia sta vedendo un grande sviluppo.
Grazie a finanziamenti, sia da fonti private che governative, stanno nascendo nuove aziende e si stanno sviluppando nuove tecnologie sulla spinta della crescente necessità di accumulare energia.
Non è casuale che Wood Mackenzie preveda che saranno proprio gli Stati Uniti ad avere il maggiore aumento di capacità di stoccaggio nel prossimo decennio.
Parliamo del 49% sull’incremento totale della capacità di stoccaggio, che equivale a 365 GWh.
Questo grazie agli obiettivi di energia pulita fissati a livello statale e al costante calo dei costi degli impianti solari ed eolici.
Stoccaggio dell’energia Vs combustibili fossili
Gli investimenti nelle rinnovabili sono in continua crescita (es. eolico offshore +319%) e il settore ha dimostrato grande resistenza di fronte alla forte diminuzione della domanda di energia durante la pandemia.
Nonostante ciò, la loro affidabilità a lungo termine dipenderà dallo stoccaggio, perché esso avrà il compito di sopperire ai fisiologici cali di produzione.
Ad oggi, è difficile pensare che l’immagazzinamento dell’energia possa escludere i combustibili fossili dal mercato, ma resta una condizione fondamentale affinché l’energia pulita diventi comoda e conveniente.
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Eolico offshore: il Regno Unito verso il sussidio negativo
L’eolico è in forte crescita in Europa: nel 2019 sono stati installati impianti equivalenti a 12 GW, mentre nel 2018 erano stati 9 GW. Questo dato, però, si riferisce al solo eolico onshore, ovvero installato sulla terraferma, mentre la nuova tendenza è puntare sull’offshore.
Stiamo parlando di centrali eoliche costruite in mare aperto, con tutti i vantaggi che questo comporta.
Il Paese che sta puntando con più decisione su questa soluzione energetica è il Regno Unito, ma anche in Italia si registrano i primi timidi tentativi di sviluppo in questo senso.
In questo articolo vogliamo parlarvi del caso britannico che promette non solo di superare i combustibili fossili ma, persino, di abbattere i costi delle bollette.
L’offshore made in UK
Presto i cittadini del Regno Unito potrebbero trovare una bella sorpresa sulla loro bolletta. Grazie all’eolico offshore, infatti, gli utenti della rete elettrica potrebbero beneficiare di un taglio dei costi energetici.
Secondo uno studio dell’Imperial College London, i costi di produzione attualmente sono talmente bassi, che non solo gli incentivi governativi non sono più necessari, ma sarà possibile il “sussidio negativo”, con conseguenti tagli alle spese per i cittadini.
La costruzione di impianti eolici e solari onshore e offshore nel Regno Unito è stata finanziata anche con il sostegno di incentivi governativi, cosa che ha causato un incremento delle bollette. Ora, però, man mano che i parchi eolici offshore inizieranno a produrre energia, sembra che il governo sarà in grado di rimborsare i cittadini.
Si tratta di un’ottima notizia anche sul fronte della riduzione delle emissioni. Un eolico sempre più economico, infatti, può competere meglio con le centrali elettriche a combustibili fossili che, inevitabilmente, diminuiranno.
Tutto ciò si deve ai nuovi impianti offshore con turbine sempre più grandi che garantiscono una maggiore efficienza e resa economica, grazie a una maggiore disponibilità di venti costanti ad alta velocità e catturabili a un’altitudine maggiore.
Le turbine eoliche in costruzione, per rendere l’idea, hanno un diametro del rotore di 220 metri, il doppio del diametro del London Eye, la celebre ruota panoramica di Londra.
Parliamo, quindi, di turbine mastodontiche in grado di produrre una quantità d’energia notevole: il recente parco eolico di Dogger Bank, ad esempio, ha la stessa capacità installata della centrale nucleare Hinkley Point C e produrrà circa i due terzi della sua elettricità annuale.
Questi dati stanno convincendo il governo inglese a chiudere le centrali nucleari e a carbone e puntare decisamente sull’eolico off-shore, con l’obbiettivo di liberarsi delle fonti fossili e nucleari nel giro di 10 anni.
Il prossimo progetto in vista è il nuovo super-parco da 1.800 MW, che verrà costruito a circa 50 km al largo di Norfolk. Un ulteriore passo verso l’obbiettivo dei 40 GW di eolico offshore entro il 2030 che si è posto il governo britannico.
E in Italia?
Nel nostro Paese, pur con un po’ di ritardo, stanno nascendo progetti per sfruttare l’energia eolica in alto mare. Un passaggio logico verso la sostenibilità energetica, per un Paese circondato per la maggior parte del territorio dal mare.
Il primo progetto approvato, e attualmente in costruzione, è quello del parco eolico offshore di Taranto, sbloccato nel 2015 dopo anni di contenziosi e partito solo nel 2019 per le autorizzazioni. L’impianto sarà costituito da 10 turbine che produrranno circa 80 GWh all’anno.
Il primo parco offshore di tipo galleggiante, che supererebbe l’ostacolo fisico degli alti fondali, è quello che sorgerà nel Canale di Sicilia. Denominato 7Seas Med, l’impianto avrà una potenza totale di 250 MW e sarà in grado di soddisfare il fabbisogno energetico annuale di 80mila abitazioni.
Un altro progetto in fase di discussione è quello presentato da Energia Wind 2020 Srl al Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti (MIT) lo scorso Marzo. Si tratterebbe di eolico offshore di tipo floating (galleggiante) e dovrebbe sorgere tra Rimini e Cattolica tra 10 e 22 km dalla costa.
Il progetto è ambizioso, con un potenza prevista di 330 MW e una produzione annua di circa 703 GWh, ma sta incontrando resistenze tra i politici nonostante l’approvazione di Legambiente.
Sembra che tra Italia e Regno Unito ci sia ancora un profondo gap culturale. Ci auguriamo che le divergenze siano superate rapidamente e che lo sviluppo delle rinnovabili nel nostro Paese possa, finalmente, decollare.
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