
Futura Energie, una giornata di volontariato aziendale sul Lago Trasimeno
Tornano le giornate di volontariato aziendale di Futura Energie: come promesso in occasione del lancio della nostra prima giornata (trovi l’articolo QUI), abbiamo organizzato una nuova iniziativa sul territorio. Sabato 11 giugno, i soci fondatori, i dipendenti, i collaboratori e gli amici di Futura Energie si impegneranno nella riqualificazione del Percorso naturalistico lungolago sulle rive del Lago Trasimeno nel Comune di Magione (Perugia), ripulendolo dai rifiuti che ne compromettono la bellezza e la vivibilità.
All’evento di volontariato aziendale, che avrà inizio alle 9,30, interverranno anche l’assessora Silvia Burzigotti, a rappresentanza del Comune, e due ricercatori dell’Università di Perugia: Maria Agnese Della Fazia e Giuseppe Servillo che ci aiuteranno a comprendere e prendere coscienza degli effetti del degrado ambientale sulla salute dell’uomo.
Al termine della raccolta, i rifiuti saranno poi differenziati in modo corretto seguendo scrupolosamente le indicazione della Trasimeno Servizi ambientali (TSA), l’azienda locale che si occupa della gestione dei rifiuti, che verrà a ritirarli per lo smaltimento.

Un paesaggio da proteggere e valorizzare
La location che abbiamo scelto per la nostra giornata di volontariato aziendale ricopre una grande rilevanza paesaggistica. Si tratta infatti di un percorso turistico immerso nella natura che permette di ammirare lo splendido Lago Trasimeno costeggiandolo. Impareggiabile è l’esperienza di assistere al tramonto sulle acque del lago mentre si percorre il sentiero pedonale protetto dalle fronde degli alberi.
Non è solo un luogo magico dove godere del paesaggio ma anche un percorso ideale per fare attività fisica ed entrare in contatto con la natura. Il percorso naturalistico lungolago del Trasimeno è una risorsa per i cittadini ed è fondamentale che sia protetto e valorizzato.
Per questo siamo orgogliosi di poter dare il nostro contributo alla sua riqualificazione agendo in prima persona, “sporcandoci le mani”, con un’attività di volontariato aziendale che determini un impatto positivo sul territorio.
Volontariato aziendale, un’attività in linea con i nostri valori
Il volontariato aziendale si propone come un concreto ed efficace contributo al raggiungimento dei 17 obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile dell’Agenda 2030 dell’Onu. È perciò perfettamente in linea con la nostra idea di futuro sostenibile, nonché di business.
Sostenibilità, innovazione e impegno sul territorio non sono solo parole per noi. La tutela dell’ambiente e l’impegno concreto sono valori fondanti per Futura Energie, valori che la nostra azienda fa suoi da sempre.
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Risponderemo a tutte le tue domande su di noi e sulle nostre offerte green di luce e gas.
A presto!

Economia circolare, secondo pacchetto UE per prodotti sostenibili
L’economia circolare è uno dei principali piani d’azione dell’Unione Europea, con il nuovo pacchetto di norme “Economia Circolare 2022” il focus si sposta decisamente sulla sostenibilità dei prodotti. Tutta le merci che vengono vendute nei Paesi dell’Unione Europea dovranno essere durevoli, aggiornabili e riparabili con facilità, con il risultato di ridurre drasticamente i rifiuti e la spesa delle famiglie.
Ecco il cardine principale del nuovo pacchetto UE presentato qualche giorno fa dalla Commissione Europea, a cui si aggiunge anche la necessità di limitare la dipendenza energetica della Comunità proteggendola così dalle crisi come quella a cui stiamo assistendo.
Realizzare prodotti sostenibili significa, prima di ogni altra cosa, porre l’attenzione sulla progettazione. Il design deve seguire principi di etica e sostenibilità condivisi da tutta la comunità. Troppi degli oggetti in vendita in Europa sono difficilmente riparabili e realizzati con materiali di bassa qualità, se non dichiaratamente usa e getta. Lampade di cui non è possibile sostituire i led esausti, elettrodomestici dai pezzi di ricambio introvabili – o così costosi da rendere poco conveniente la riparazione – e articoli scadenti che diventano rifiuti in men che non si dica: ecco le storture alle quali il nuovo pacchetto UE vuole porre rimedio.
Le proposte riguardano, in particolare:
- la progettazione ecocompatibile dei prodotti sostenibili (ecodesign)
- la sostenibilità e la circolarità dei prodotti tessili
- l’etichettatura energetica
Progettare prodotti sostenibili
Nel 2019 nell’Unione Europea si sono prodotte quasi 225 milioni di tonnellate di rifiuti urbani, che corrispondono a 502 kg a persona (dati Eurostat). E il volume è sempre in aumento: rispetto al 2018, infatti, abbiamo prodotto 7 kg di immondizia in più a testa (495 kg).
Come abbiamo detto, l’ecodesign è cruciale per realizzare un’economia circolare davvero funzionante. L’impatto dei rifiuti causati dall’usa e getta, ma anche dall’impossibilità di riparare dispositivi elettronici ed elettrodomestici, è enorme. La responsabilità, quindi, non è da addossare completamente ai cittadini: esiste un problema di sistema, collegato al modello economico neoliberista che incentiva il consumo rapido di beni e servizi.
Per queste ragioni, la Commissione Europea con il pacchetto “Economia Circolare 2022” vuole integrare ed estendere le norme già esistenti sulla ecocompatibilità dei beni fisici immessi sul mercato o messi in servizio nella UE.
Le prime categorie a essere regolamentate dovrebbero essere:
- Tessili
- Mobili
- Materassi
- Pneumatici
- Detersivi
- Vernici
- Lubrificanti
- Alcuni prodotti intermedi, ad esempio metalli come alluminio, acciaio e ferro
In questa fase iniziale saranno esclusi i settori degli alimentari, dei mangimi e dei medicinali, ma l’intento è di regolamentare anche questi.
I provvedimenti del pacchetto “Economia Circolare 2022”
Prima di tutto, saranno definiti specifici requisiti di sostenibilità e di informazione che avranno lo scopo di informare i consumatori riguardo all’impatto ambientale dei prodotti. Un provvedimento che permette ai cittadini di orientare le proprie scelte in modo responsabile e consapevole, secondo i valori di sostenibilità ambientale oramai condivisi dalla maggioranza della popolazione.
Inoltre, a tutti i prodotti sarà assegnato un passaporto digitale: uno strumento informativo per semplificare la riparazione e il riciclo e facilitare il monitoraggio delle sostanze problematiche in tutta la catena di approvvigionamento. Si ipotizza anche di introdurre una scala di “classi di prestazione”, come quella utilizzata per l’efficienza energetica, in modo che il confronto tra le caratteristiche dei prodotti sia immediato.
Migliorare la sostenibilità dei prodotti tessili
I prodotti tessili hanno un grande impatto ambientale per varie ragioni, tra cui l’inquinamento generato nella produzione, il consumo d’acqua necessario alle piantagioni di cotone e la dispersione di microplastiche durante il lavaggio.
Per questi motivi, stabilire standard di durabilità ed ecocompatibilità dei prodotti tessili è una delle priorità del pacchetto UE: i tessuti dovranno essere duraturi, riciclabili, prodotti con fibre riciclate e senza l’impiego di sostanze nocive, oltre che nel rispetto dei diritti dei lavoratori.
I provvedimenti del pacchetto “Economia Circolare 2022”
Tra gli interventi del pacchetto “Economia Circolare 2022” troviamo:
- requisiti di design ecocompatibile
- informazioni trasparenti
- passaporto digitale
- regime obbligatorio di responsabilità estesa del produttore
- contrasto del rilascio involontario di microplastiche
- controllo della veridicità delle dichiarazioni ecologiche
- promozione di modelli di business circolari

Scarsità d’acqua, siamo a gennaio e sembra già estate
La scarsità d’acqua in Italia ha assunto ormai le proporzioni di un’emergenza. Siamo appena alla fine di gennaio, l’inverno è ancora lungo, ma la quantità d’acqua di fiumi e laghi è a livelli normalmente registrarti nel periodo estivo.
A essere maggiormente colpite dalla mancanza d’acqua sono state le regioni del Nord Italia, mentre nel Centro la crisi è meno preoccupante e nel Sud Italia la disponibilità è piuttosto buona. In particolare, i territori della Lombardia e del Piemonte destano preoccupazione per lo stato del manto nevoso ben oltre i livelli di guardia: il 57,6% in meno rispetto alla media. Anche i laghi sono in sofferenza: il lago di Como ha perso il 66% del volume, l’Iseo il 33% e il lago Maggiore ha perso 50 milioni di metri cubi.
L’allarme è stato lanciato dall’osservatorio dell’Anbi, l’Associazione Nazionale Consorzi di gestione e tutela del territorio e acque irrigue.
Le cause della scarsità d’acqua nella nostra Penisola
Il livello di fiumi e laghi dipende direttamente dal volume delle nevicate che si verificano in alta quota. Con le normali nevicate invernali si forma una sorta di bacino di riserva che alimenterà i corsi d’acqua, ma quest’anno le precipitazioni sono state scarse praticamente ovunque.
Inoltre, le temperature sono state anomale e in montagna hanno superato largamente le medie stagionali. A Capodanno, ad esempio, abbiamo assistito a ondate di calore che hanno portato le temperature sulle Alpi, oltre i 1500 metri, a 14°C sopra la media. Lo zero termico, di conseguenza, si è spostato spesso a quote altissime come dovrebbe avvenire solamente in primavera, o persino, in estate.
Il risultato di queste anomalie climatiche è stata una riduzione notevole del volume d’acqua. Nel Po, ad esempio, è stata rilevata una portata dimezzata rispetto a quella di un anno fa e a Piacenza ha toccato i minimi storici: un flusso di 379,7 metri cubi al secondo.
Una minaccia globale
La mancanza d’acqua non è un problema unicamente del territorio italiano. Secondo l’Onu, il pianeta potrebbe trovarsi di fronte a un carenza idrica globale del 40% entro il 2030. A causarla sarebbero il riscaldamento globale e l’aumento globale dei consumi.
Il Rapporto mondiale delle Nazioni unite sullo sviluppo delle risorse idriche 2020 ha mostrato come circa 4 miliardi di persone nel mondo si trovino già in condizioni di grave scarsità fisica di acqua per almeno un mese all’anno.
Allo stesso tempo, il consumo di acqua è aumentato di 6 volte negli ultimi 100 anni e non accenna a fermarsi; cresce a un tasso di circa l’1% all’anno. Le cause sono da ricercasi nella crescita demografica e nell’evoluzione dei modelli di produzione e consumo delle risorse.
Inoltre, quando l’economia di una regione dipende molto dalla disponibilità di acqua le conseguenze sociali sono drammatiche, come violenze e migrazioni di massa. Ecco un dato che fa riflettere: nel 2017 ben 18,8 milioni di persone in 135 Paesi sono diventate sfollate a causa di eventi climatici estremi come inondazioni e siccità.
Read MoreCi auguriamo che questo articolo ti sia piaciuto. Se sei interessato ai temi del risparmio energetico e dell’energia pulita, Futura Energie è il fornitore perfetto per te!
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Disastri climatici, nel 2021 crescono i danni economici
I disastri climatici nell’anno 2021 hanno provocato danni per 170 miliardi di dollari. Un aumento del 13% rispetto al 2020, equivalente a 20 miliardi in più, che tiene conto solo dei 10 peggiori disastri dell’anno. Lo afferma lo studio annuale della ong britannica Christian Aid sull’andamento del clima del pianeta.
Il cambiamento climatico non è “soltanto” una minaccia per l’ambiente e la sopravvivenza dell’umanità, ma comporta anche un enorme impatto economico sui territori che subiscono i sempre più frequenti e intesi disastri climatici. Il riscaldamento globale, infatti, rende i fenomeni atmosferici più pericolosi e imprevedibili.
I 10 peggiori disastri climatici del 2021
Nel corso del 2021 sono stati tantissimi i disastri naturali provocati dal clima. Ecco i primi 10 in ordine di impatto economico:
- L’uragano Ida, che ha devastato gli Stati Uniti d’America ed è costato 65 miliardi di dollari
- Le alluvioni in Europa centrale, tra Belgio, Germania e Olanda: $43 miliardi di dollari
- La tempesta invernale in Texas che ha provocato $23 miliardi di dollari di danni
- Le alluvioni nell’Henan in Cina, dove nel giro di poche ore è caduta la pioggia che di norma cade in un anno: $17.6 miliardi di dollari
- Le alluvioni nella British Columbia in Canada: $7.5 miliardi di dollari
- L’ondata di calore in Francia: $5.6 miliardi di dollari
- Il ciclone Yaas in India e Bangladesh: $3 miliardi di dollari
- Le alluvioni in Australia: $ 2,1 miliardi di dollari
- Il tifone In-fa in Cina, Filippine e Giappone: $2 miliardi di dollari
- Il ciclone Tauktae in India, Sri Lanka e Maldive: $1.5 miliardi di dollari
Questi disastri climatici hanno purtroppo comportato anche spaventosi danni umanitari: ben 1,3 milioni di persone sono rimaste sfollate e 1075 hanno perso la vita. Ma non finisce qui: tra gli eventi naturali che hanno avuto un costo finanziario inferiore a 1,5 miliardi la Christian Aid ne ha messi in luce alcuni tra i più devastanti a livello umanitario:
- La siccità del fiume Paraná che ha interessato Argentina, Paraguay e Brasile)
- le alluvioni nel Sudan del Sud
- la crisi del Lago Ciad (a rischio desertificazione) che interessa Nigeria, Niger, Ciad e Camerun
- la Pacific Northwest heatwave, l’ondata di calore che ha investito la costa occidentale di Usa e Canada tra giugno e luglio 2021
- la siccità in Africa Orientale che ha coinvolto Kenya, Etiopia e Somalia
I più colpiti dai disastri climatici sono in Paesi poveri
Come si può notare dalla classifica stilata da Christian Aid, la maggior parte dei danni da disastri climatici si sono verificati nei Paesi ricchi ma questo non deve ingannare: sono i Paesi poveri a subire i danni più ingenti. La motivazione principale di questo divario è che nei Paesi ricchi molte più persone sono in grado di assicurare i propri beni, cosa che raramente accade nel Terzo Mondo.
Gli indennizzi assicurativi sono un modo rapido per stimare le perdite dovute ai disastri climatici ma questo approccio è efficace soprattutto nei Paesi ricchi. In quelli poveri, invece, la stima risulta più difficile, come nel caso del Sud Sudan, territorio già stremato da guerra civile e siccità, che ha subito inondazioni con un bilancio di 800.000 sfollati.
Una pericolosa escalation
Nell’anno che sta giungendo alla conclusione i danni provocati da eventi climatici estremi hanno superato per la sesta volta i 100 miliardi di dollari di perdite assicurate. Tutti i superamenti della soglia sono avvenuti dal 2011 ad oggi e, dato ancora più allarmante, nel 2021 sarà il quarto nel arco degli ultimi cinque anni. Una escalation preoccupante che fa presagire un futuro in cui i disastri climatici saranno sempre più frequenti e sempre più devastanti.
Se ce ne fosse stato ancora bisogno, ecco l’ennesimo campanello d’allarme. È necessario che i governi di tutto il mondo mettano in campo strategie di decarbonizzazione delle loro economie al più presto. Non è più tempo di procrastinare passando il testimone alle generazioni future.
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Luci sul Trasimeno: torna l’albero di Natale da record
Il gigante buono, steso in tutta la sua maestosità sullo splendido lago Trasimeno, sta per tornare dal 4 dicembre 2021 al 9 gennaio 2022.
Dopo un anno di assenza, a causa della dolorosissima pandemia contro cui il nostro Paese sta ancora lottando, l’associazione Eventi Castiglione del Lago con il contributo di Comune e Gal Trasimeno-Orvietano ripresenta “Luci sul Trasimeno”. Una manifestazione che tra il dicembre 2019 e il gennaio 2020 ha battuto ogni record di presenze e attirato l’attenzione di tutto il mondo. Al punto che anche la famosa rivista americana Forbes ha citato Castiglione del Lago tra le migliori mete per passare il Natale in Italia.
«L’incantevole città di Castiglione del Lago in Umbria ospita quest’anno “Luci sul Trasimeno” che vede l’albero di Natale più grande del mondo proiettato su uno specchio d’acqua…».
Nel 2019 l’evento aveva offerto oltre 30 giorni di spettacoli, musica, manifestazioni, mercatini e intrattenimenti e il pubblico aveva risposto con una grandissima ed entusiastica partecipazione che aveva portato alla vendita oltre 70.000 biglietti e 200.00 visitatori.
Il fulcro di questa esperienza unica era un albero di Natale lungo ben 1000 metri e largo 50, un’installazione luminosa da record: il più grande albero natalizio illuminato sull’acqua al mondo. Un gigante realizzato sulla superficie del lago a circa 300 metri dalla riva impiegando ben 5000 metri di cavo, 70 pali portanti e 2450 lampadine.
Un albero di Natale sul Lago Trasimeno: un record anche di sostenibilità
La sostenibilità è uno dei valori fondanti della manifestazione “Luci sul Trasimeno”, un valore che con la promozione dello sviluppo del territorio accomuna anche noi di Futura Energie.
Nella prima edizione dell’evento gli organizzatori avevano lanciato un’iniziativa volta a compensare la grande quantità di CO2 che l’accensione delle 2450 lampadine avrebbe causato. L’iniziativa, che si chiama “Adotta una luce” e verrà riproposta anche quest’anno, consisteva nella possibilità di “adottare” una lampadina donando 20 euro.
Il ricavato delle donazioni è servito per piantare migliaia di alberi e compensare le emissioni. I progetti ambientali previsti quest’anno, invece, non sono ancora stati svelati ma, come sempre l’attenzione alla sostenibilità sarà al primo posto.
L’impegno di Futura Energie: sostenibilità, energia pulita e sviluppo del territorio
Ve lo ricordate? Poco più di due anni fa, Futura Energie annunciava la sua collaborazione con questa iniziativa dal successo assicurato pubblicando un articolo interamente dedicato ad essa.
Abbiamo assistito all’accensione dell’albero, abbiamo seguito i tanti eventi che hanno animato quelle settimane invernali, ci siamo emozionati insieme a voi durante la cerimonia di spegnimento e da allora abbiamo atteso questo momento. L’albero albero natalizio illuminato sull’acqua più grande del mondo sta per tornare sul lago Trasimeno.
Futura Energie sarà ancora orgogliosa sostenitrice dell’evento: non vediamo l’ora di contribuire alla ripresa di un territorio di sconfinata bellezza e dalle importanti potenzialità di sviluppo economico e turistico.
Siete pronti? L’appuntamento è per sabato 4 dicembre con la cerimonia di accensione dell’albero.
A presto!
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I sussidi ambientalmente dannosi frenano la transizione ecologica
Mentre si parla di transizione ecologica, rinnovabili ed economia circolare permangono ancora sussidi ambientalmente dannosi (SAD) che costano all’Italia ben 34,6 miliardi l’anno.
Si tratta di sussidi statali che finanziano attività e progetti inquinanti e dannosi per il clima globale. Sono ormai diversi anni che si discute sulla loro abolizione ma ad oggi non si è fatto ancora abbastanza. Lo testimonia il costo annuale dei SAD per Stato italiano. Dal 2019 al 2020 la riduzione di questi incentivi ambientalmente deleteri è stata appena percettibile: da poco meno di 35,7 miliardi di euro ai già citati 34,6 miliardi di euro all’anno.
Così non è abbastanza. È inaudito che, mentre tutto il sistema Italia prova faticosamente a cambiare per soddisfare le richieste dell’Unione Europea in materia di ambiente ed energia, quasi 35 miliardi l’anno siano assegnati a quei settori che rappresentano la causa del riscaldamento climatico.
Questo quadro problematico emerge dal rapporto di Legambiente “Stop sussidi ambientalmente dannosi” pubblicato due giorni fa. I SAD, contrariamente a quanto si possa pensare, non sono destinati solo al settore energetico, quello delle fonti fossili, ma toccano anche il settore dei trasporti, quello dell’edilizia, i canoni e il settore agricolo.
Analizziamoli più in dettaglio
I SAD contro la transizione ecologica : non solo fonti fossili
I sussidi ambientalmente dannosi in Italia comprendono 51 voci, tra sussidi diretti e indiretti. Secondo quanto affermato da Legambiente nel rapporto “Stop sussidi ambientalmente dannosi”, una buona parte dei SAD potrebbe essere già abolita nel 2025. Liberando i fondi ora destinati alle fonti fossili e al capacity market per le centrali a gas, si otterrebbero circa 18,3 miliardi che potrebbero poi essere reinvestiti nel processo di decarbonizzazione.
Entrando più nel dettaglio, il settore dell’energia si pone come il più impattante. Sono 12,9 i miliardi di euro che assorbe grazie a sussidi diretti e indiretti, per lo più destinati al comparto degli idrocarburi. Parliamo di riduzione dei prezzi, agevolazioni IVA, CIP6, fondi pubblici per la realizzazione di infrastrutture e, soprattutto, incentivi per le trivellazioni che costano 498,94 milioni di euro all’anno.
Dopo gli idrocarburi viene il settore edilizio, tanto importante per la transizione energetica quanto sussidiato dai SAD: un totale di 1.147,8 i milioni di euro all’anno. All’edilizia seguono i trasporti con 16.600 milioni di euro e il sostegno alle centrali a gas garantito dal meccanismo del Capacity market che assorbirà circa 15 miliardi di euro di sussidi ambientalmente dannosi all’anno per i prossimi 15 anni.
Se l’intenzione dello Stato è quella di agevolare la transizione ecologica e l’abbandono dei combustibili fossili, allora una delle priorità dovrebbe essere la re-destinazione dei SAD all’innovazione sostenibile e all’energia pulita. E chissà che l’imminente Cop-26, la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, possa partorire un impegno concreto in questa direzione.
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Agenda 2030, rallenta il percorso dell’Italia verso la sostenibilità
Nel 2020 abbiamo assistito a un rallentamento del percorso dell’Italia verso gli obbiettivi di sostenibilità e sviluppo stabiliti dall’Agenda 2030 dell’Onu.
Mancano ancora nove anni alla data entro cui l’Italia, insieme agli altri Paesi membri dell’Onu, si è impegnata a centrare i 105 obbiettivi e i 169 sotto-obbiettivi, ma i risultati finora conseguiti non fanno ben sperare.
I 17 obbiettivi cardine
Tra i molti target, ne sono stati individuati 17 di vitale importanza che sono diventati i cardini della Agenda 2030 fin dal suo avvio all’inizio del 2016. Eccoli:
- Porre fine alla povertà in tutte le sue forme in tutto il mondo
- Porre fine alla fame, realizzare la sicurezza alimentare e una migliore nutrizione e promuovere l’agricoltura sostenibile
- Assicurare la salute e il benessere di tutti e per tutte le età
- Garantire un’istruzione di qualità inclusiva e paritaria e di promuovere opportunità di apprendimento permanente per tutti
- Raggiungere la parità di genere e l’empowerment di tutte le donne e le ragazze
- Garantire la disponibilità e la gestione sostenibile delle risorse idriche e servizi igienico-sanitari per tutti
- Assicurare l’accesso all’energia a prezzi accessibili, affidabile, sostenibile e moderno per tutti
- Promuovere una crescita economica duratura, inclusiva e sostenibile, la piena e produttiva occupazione e un lavoro dignitoso per tutti
- Costruire infrastrutture resistenti, promuovere l’industrializzazione inclusiva e sostenibile e promuovere l’innovazione
- Ridurre le disuguaglianze all’interno e tra i paesi
- Rendere le città e gli insediamenti umani inclusivi, sicuri, flessibili e sostenibili
- Garantire modelli di consumo e produzione sostenibili
- Promuovere azioni, a tutti i livelli, per combattere il cambiamento climatico
- Conservare e utilizzare in modo durevole gli oceani, i mari e delle risorse marine per lo sviluppo sostenibile
- Proteggere, ripristinare e favorire un uso sostenibile dell’ecosistema terrestre
- Promuovere società pacifiche e inclusive per lo sviluppo sostenibile, fornire l’accesso alla giustizia per tutti e costruire istituzioni efficaci, responsabili e inclusive a tutti i livelli
- Rafforzare i mezzi di attuazione e rinnovare il partenariato mondiale per lo sviluppo sostenibile
Agenda 2030, gli indicatori di sviluppo sostenibile in peggioramento
Sono passati ormai cinque anni dall’avvio dell’agenda, a che punto siamo nel nostro Paese?
Secondo il Rapporto sui Sustainable Development Goals (SDGs) pubblicato recentemente da Istat, il Covid-19 nel 2020 ha frenato la corsa dell’Italia verso il raggiungimento degli obbiettivi di sostenibilità e sviluppo dell’Agenda 2030.
Rispetto al 2019 le misure in miglioramento sono state, infatti, in forte calo – sono solo il 42,5% – mentre le misure in peggioramento sono salite al 37,0%. Vediamo più in dettaglio la situazione.
Dei 17 target di sostenibilità e sviluppo considerati cardine, si prevede che solo tre potranno essere centrati entro il 2030. Tutti gli altri, purtroppo, sembrano ancora fuori portata per l’Italia e necessiteranno di un periodo più lungo per essere raggiunti.
Solamente gli obbiettivi di sostenibilità numero 2, 3 e 16 sembrano raggiungibili a breve termine. Mentre, i target 4, 7 e 13 restano in sospeso e potrebbero ricevere una considerevole spinta dal Green Deal nei prossimi due anni.
A preoccupare, invece, sono il target 1 (povertà ed esclusione sociale), ma soprattutto il 10 (diseguaglianze) e il 17 (risorse pubbliche e private per sviluppo sostenibile) su cui il divario con gli altri Paesi si fa molto ampio.
Bando al pessimismo! Facciamo la nostra parte
La sfida che ci pone l’Agenda 2030 è ardua da vincere, e come abbiamo visto dal rapporto dell’Istat, l’Italia arranca nel suo percorso verso il raggiungimento dei target di sostenibilità e sviluppo.
Allo stesso tempo, però, dobbiamo rilevare che i nostri enti territoriali, in anticipo rispetto allo Stato, hanno iniziato a fare riferimento agli obbiettivi fissati dall’Onu per coordinare le proprie politiche settoriali.
Insomma, possiamo dire che qualcosa si muove. E ognuno di noi può dare il proprio contributo adottando uno stile di vita più sostenibile e impegnandosi in prima persona nel sociale.
Noi di Futura Energie abbiamo deciso di contribuire alla valorizzazione del territorio in ottica di sostenibilità. Per questo il prossimo 2 ottobre saremo impegnati in una giornata di volontariato, in collaborazione con Legambiente, presso il Parco della Pescaia a Perugia.
Un’iniziativa di cui siamo molto fieri e che speriamo possa diventare un appuntamento fisso.
Leggi il nostro recente articolo a riguardo. Grazie!
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Impronta ecologica: come si calcola e come ridurla
Nel dibattito sull’impatto ambientale delle attività umane sulla Terra, avreste certamente sentito parlare di impronta ecologica.
Malgrado l’apparenza, non si tratta di un concetto positivo o “eco”, ma di un indice utile a valutare quanto profondo sia il nostro impatto sull’ambiente.
È noto che tutte le attività economiche dell’umanità incidono, alcune più di altre, sull’integrità della natura e delle risorse che essa ci ha messo a disposizione.
Quando si parla di risorse, è comune pensare prima di tutto alle fonti di energia (petrolio, carbone, gas) e alle materie prime (ad esempio, metalli e minerali) ma esse non si limitano a queste. Il sostentamento dell’umanità dipende, infatti, in larga parte dalla disponibilità di acqua potabile e terra coltivabile.
Noi tendiamo a vedere le risorse naturali come illimitate ma questa non è altro che un’illusione. Se ci appaiono così è dovuto al fatto che la natura ha la straordinaria capacità di rigenerarsi sostituendo le risorse consumate.
Cosa succede, però, quando la nostra voracità nel consumare risorse naturali supera la capacità di rigenerazione del pianeta? È ovvio, il pianeta si impoverisce.
L’impronta ecologica ha lo scopo di aiutarci a monitorare il ritmo a cui consumiamo risorse e darci la possibilità di rimediare.
La cosa interessante è che è possibile calcolare l’impronta ecologica dell’intera umanità, ma anche di territori circoscritti e, persino, di noi come individui.
La definizione moderna di impronta ecologica
Ad oggi la definizione di impronta ecologica è:
“l’area totale di ecosistemi terrestri e acquatici richiesta per produrre le risorse che la popolazione di una comunità consuma e assimilare i rifiuti che la popolazione stessa produce”
In sostanza, è un indice statistico che mette a confronto il consumo di risorse naturali di un territorio con la capacità del pianeta di rigenerarle. E quindi stima l’estensione dell’area biologicamente produttiva necessaria a rigenerare quelle risorse e a neutralizzarne i rifiuti.
Pertanto, grazie all’indice di impronta ecologica possiamo confrontare il nostro impatto ambientale personale con le risorse pro capite disponibili e capire se il nostro stile di vita è sostenibile o meno.
Calcolare l’impronta ecologica
La formula creata per calcolare questo indice mette in relazione la quantità di ogni risorsa consumata con la costante di rendimento – che si misura in chilogrammi per ettaro (kg/ha).
Il risultato di questo calcolo sarà una superficie espressa in ettari globali, unità di misura dell’impronta ecologica.
Niente paura, non è necessario essere laureati in matematica per calcolare la propria, o del proprio territorio. WWF, infatti, ha messo a disposizione sul suo sito web un calcolatore basato su una serie di domande a cui rispondere con un click.
Ridurre il nostro impatto
Ognuno di noi deve fare del proprio meglio per ridurre l’impatto ambientale delle proprie abitudini. Le scelte che facciamo ogni giorno possono davvero incidere sulla nostra impronta ecologica. Ecco alcuni consigli pratici:
- Risparmiare acqua. Noi italiani siamo tra i più grandi consumatori d’acqua al mondo e primi in Europa. Parliamo di un consumo pro capite di circa 220 litro d’acqua al giorno, in media (esistono però grandi differenze di consumi a livello territoriale). La maggior parte di quest’acqua potabile – il 39% circa – viene utilizzata in docce e bagni, per il lavaggio delle stoviglie e dei vestiti, per pulizie domestiche e per l’irrigazione. I modi per ridurre il consumo d’acqua sono semplici ma efficaci: preferire la doccia al bagno, usare la lavastoviglie e installare regolatori di flusso.
- Bere l’acqua del rubinetto. Evitare l’acqua in bottiglia riduce fortemente la quantità di plastica prodotta e l’emissione di CO2 dovuta al trasporto. L’acqua del rubinetto ha, infatti, un’impronta ecologica 200 volte inferiore rispetto a quella in bottiglia. Se ci tieni all’ambiente ma non hai a disposizione acqua di buona qualità, prova i depuratori o le semplici caraffe filtranti.
- Mangiare meno carne. Per produrre un chilogrammo di carne sono necessari da 10 a 15 chilogrammi di cereali – che a loro volta necessitano di molta acqua per crescere. Inoltre, gli stessi allevamenti inquinano e consumano molte risorse idriche. Non è necessario diventare vegetariani, anche ridurre il consumo di carne può fare la differenza.
- Scegliere prodotti a Km 0. Questa scelta non riduce solo le emissioni generate dal trasporto dei prodotti ma anche quelle dovute all’energia consumata per il surgelamento. Il cibo surgelato comporta un consumo dieci volte più grande di quello fresco.
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Deep Sea Mining, i rischi delle miniere in mare aperto
Miniere in mare aperto, a grandissime profondità, sfruttate da piccoli robot: ecco il Deep Sea Mining, lo sfruttamento minerario dei fondali marini per sostenere la transizione ecologica.
Ma quali sono le ragioni che spingerebbero a investire in imprese di questo tipo? Si dà il caso che i fondali oceanici siano ricchi di metalli rari che diventeranno sempre più richiesti sul mercato nei prossimi anni.
La tanto auspicata transizione ecologica, infatti, dipenderà dalla disponibilità di metalli come cobalto, nichel e rame. Materiali indispensabili per la produzione di batterie, tecnologie legate alle energie rinnovabili , smartphone e, naturalmente, collegamenti elettrici.
Se fino a poco tempo fa le compagnie minerarie si sono limitate a finanziare esplorazioni e mappature dei fondali oceanici, la spinta della transizione ecologica ha rinnovato l’interesse verso il Deep Sea Mining.
Questi metalli sono rari e sempre più richiesti, fattori che ne hanno fatto impennare il costo rendendoli appetibili per le compagnie minerarie.
Il campo è totalmente nuovo e necessita una tempestiva regolamentazione, ma la mancanza di studi approfonditi sui fondali oceanici rende ciò un salto nel buio.
Quali potrebbero essere i danni ambientali del Deep Sea Mining è ancora un’incognita ma le istituzioni si stanno già muovendo per emettere le prime concessioni di sfruttamento.
L’Unione Europea, con la sua agenzia per la regolamentazione dei fondali marini (ISA, International Seabed Authority), progetta di ottenere un accordo globale entro due anni; mentre la Norvegia intende già emettere i primi permessi entro il 2024.
Quali danni ambientali potrebbe provocare il Deep Sea Mining?
Le miniere in mare aperto potrebbero danneggiare la flora e la fauna dei fondali marini?
Per rispondere a questo quesito, gli esperti dovrebbero avere a disposizione studi approfonditi sui fondali che, purtroppo, ad oggi ancora non esistono.
La profondità, infatti, rende molto difficili le indagini scientifiche: parliamo di fondali a una profondità di 4.000-5.000 metri. Non a caso, per la raccolta dei cosiddetti noduli polimetallici che contengono i metalli rari vengono impiegati piccoli robot.
Gli unici studi esistenti sono quelli che la ISA dichiara di possedere ma si basano su dati forniti dalle stesse compagnie minerarie che mirano a sfruttare i giacimenti oceanici.
Tutte le ipotesi
Sui potenziali pericoli derivati dal Deep Sea Mining sono state avanzate una serie di ipotesi.
Prima di tutto, alcune ricerche ipotizzano che il rumore provocato dalle operazioni di estrazione potrebbe avere un impatto dannoso sulla fauna marina.
Analogamente, altre ricerche sottolineano il potenziale impatto luminoso e quello legato alle vibrazioni.
Inoltre, tra le conseguenze più pericolose c’è il sollevamento di nubi di sedimenti causato dalle operazioni di estrazione dei noduli polimetallici. Queste nubi danneggerebbero gli ecosistemi e, soprattutto, trasporterebbero in superficie metalli pesanti grazie al fenomeno dell’upwelling, mettendo a rischio tutta la colonna d’acqua soprastante con gli organismi presenti.
Ad oggi, l’unico criterio applicabile è quello del principio di precauzione (do not harm principle), che consiste nel bloccare le attività fino a quando non si avranno informazioni più precise sulla loro pericolosità.
Tuttavia, è chiaro che il processo che porterà alle concessioni si sia ormai messo in moto. Urgono studi indipendenti sul Deep Sea Mining su cui basare una regolamentazione che salvaguardi l’ambiente marino.
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Quando l’inquinamento atmosferico significa disuguaglianza sociale
Si tende a vedere l’inquinamento atmosferico come un fenomeno “democratico” che danneggia tutti senza differenze, in realtà c’è una forte disuguaglianza sociale. Respirare aria inquinata è più probabile se si vive in comunità povere ed emarginate.
Ecco la rivelazione, tutt’altro che sorprendente, di una ricerca dell’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità). Il 90% dei morti causati dall’inquinamento dell’aria è nei Paesi a basso e medio reddito.
Inoltre, sono i Paesi ricchi ad avere l’impatto maggiore sulla qualità dell’aria. I ricchi inquinano e i poveri respirano aria più sporca e si ammalano.
Anche nell’ambito dei cambiamenti climatici, i Paesi che producono le più grandi quantità di gas serra sono anche quelli che ne subiscono meno le conseguenze.
I dati dell’OMS mostrano che dei 36 Paesi con emissioni più elevate ben 20 sono tra quelli meno vulnerabili al riscaldamento climatico.
In questo modo, l’inquinamento atmosferico si lega strettamente alla disuguaglianza sociale. Come spesso accade sono i poveri a subire gli effetti collaterali di un’economia basata sul consumo sconsiderato.
Le ragioni di ciò sono facili da individuare e sono legate alla ghettizzazione delle comunità a basso reddito e alla difficoltà di accesso a fonti di energia pulite ed efficienti.
Chi respira l’aria inquinata
Nei Paesi dell’Africa subsahariana, ad esempio, l’accesso all’aria pulita è fortemente influenzato dal reddito. Case poco ventilate e l’utilizzo di combustibili solidi (come legno e carbone) per cucinare, scaldare e illuminare obbligano le persone a respirare aria nociva.
L’esposizione al particolato generato dalla combustione è quindi responsabile di molti problemi di salute come polmonite, malattie cardiache, ictus e cancro.
Sarebbe un errore, però, pensare che condizioni di vita così pericolose si trovino solo in Africa.
Gli Stati Uniti d’America, una delle prime potenze economiche al mondo, sono un Paese diviso da profonde disuguaglianze tra classi di reddito e tra etnie diverse.
Anche per quanto riguarda l’inquinamento atmosferico, c’è una profonda spaccatura tra le comunità benestanti, in gran parte responsabili dell’aria inquinata, e le comunità povere che la subiscono.
Secondo la ricerca dell’OMS, infatti, i bianchi americani subiscono l’inquinamento il 17% in meno rispetto ai loro consumi, mentre afroamericani e ispanici devono sopportare rispettivamente il 56% e il 63% di inquinanti in più.
La spiegazione? Molto probabilmente questa disuguaglianza è dovuta alla segregazione etnica di queste comunità e alla concentrazione di industrie nelle zone più povere del Paese.
Come nella regione tra New Orleans e Baton Rouge (Louisiana), soprannominata “Cancer alley”, in cui sono attivi molti impianti petrolchimici altamente inquinanti e il tasso di tumori è così preoccupante da aver indotto la popolazione a fondare un movimento di protesta.
Anche in Europa ci sono esempi di disuguaglianza sociale legata all’inquinamento atmosferico. Nella regione dei Paesi Baschi spagnoli, i quartieri a basso reddito hanno 6 volte la probabilità di trovarsi vicino a impianti inquinanti rispetto a quelli ad alto reddito.
A livello europeo a fare la differenza sono la mancanza di aree verdi, le condizioni dei vicini e l’inquinamento dell’aria. Questi fattori sono causa del 20% delle disparità sanitarie in Europa.
Se l’aria pulita diventa un lusso
Che cosa dobbiamo aspettarci dal futuro? L’aria pulita potrebbe davvero diventare scarsa e quindi ad appannaggio delle sole classi ad alto reddito?
Per quanto questo scenario possa apparire apocalittico e irrealistico, rappresenta una minaccia da prendere estremamente sul serio.
Il riscaldamento globale non accenna a rallentare e i governi continuano a rimandare la riduzione delle emissioni di CO2. L’esempio più recente è il deludente G20 di Napoli.
Allo stesso tempo, sembra che i cittadini non abbiano ancora preso coscienza dell’impatto ambientale delle loro scelte quotidiane.
Ci aspetta un futuro in cui risorse come aria e acqua potrebbero diventare le nuove valute globali. E uno scenario del genere comprenderebbe guerre civili, carestie ed emigrazioni di massa.
Agire ora, contro l’inquinamento dell’aria (e non solo) e le disuguaglianze sociali è l’unica via per garantire ai noi stessi e alle nuove generazioni un pianeta sano e ricco.
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